HARROGATE all’Argot: La recensione

di Laura Dotta Rosso

Un rapporto complicato tra un uomo e una donna. Un rapporto tortuoso tra un padre e una figlia. Un rapporto intricato tra marito e moglie: l’uomo è sempre lo stesso, indossa maschere diverse; i suoi movimenti sono calcolati, il suo tono rigido, cerca di non scomporsi mai, di visualizzare la sua vita passo dopo passo pianificando e controllando ogni aspetto della sua personalità. Il Teatro Argot studio presenta“Harrogate”, spettacolo di Al Smith con la traduzione di Alice Spisa che svolge anche il ruolo di una dei due interpreti insieme a Marco Quaglia per la regia di Stefano Patti.

Argot produzioni in collaborazione con 360 gradi, presenta questo lavoro che ha debuttato in Italia all’interno della diciassettesima edizione della “rassegna Trend”,presso il Teatro Belli di Roma.

L’uomo protagonista desidera governare la figlia di soli sedici anni: è intransigente, rigido, non la conosce profondamente e questo lo porta a regalarle soldi per gestirla da lontano, a permetterle ciò che la madre le vieta per sembrare amorevole, comprensivo. “Come è andata la settimana? Perchè non hai le scarpe che ti avevo detto di comprare? Perchè hai un Samsung invece del Nokia per cui ti avevo dato i soldi? domande semplici, banali, che nascondono, però, l’ossessione dell’uomo verso tutto ciò che il suo cervello non riesce a gestire. Il padre ricorda le lettere che lei gli scriveva dal campeggio quando era piccola, lo rendevano tanto felice, quando ancora tutto sembrava poter essere in equilibrio.

La figlia gli domanda: “ Vorresti che ti scrivessi ancora?” “ ormai è troppo tardi” risponde lui. È troppo tardi per gestire il suo ardore, la sua vera natura che prepotentemente vuole scalpitare ed uscire dal suo corpo. Siamo in una cucina bianca, glaciale, il tempo si ferma, le azioni sembrano susseguirsi senza che il mondo al di fuori riesca a procedere con la sua consueta velocità. Una sciarpa verde, un innocente regalo, simbolo della purezza del rapporto tra l’uomo e la moglie, emblema del viaggio a Damasco, l’inizio del loro duo, quando ancora l’amore non si era trasformato in controllo, quando l’atteggiamento passivo aggressivo non si era ancora sviluppato.

Problemi coniugali, superficiali, apparentemente solo poca attrazione tra le lenzuola, dettata dalla routine, dall’avere passato trent’anni insieme, ma sarà davvero solo questo?

Marco Quaglia riesce a spiazzare, a subentrare nelle menti dello spettatore come un laser,il pubblico è disorientato, a tratti crede di avere di fronte un uomo mentalmente instabile, in altri pensa di non aver compreso la psicologia del personaggio e si convince che sia solo un uomo fragile e insicuro; riesce perfettamente a centrare il ruolo,a focalizzare le sfumature e i cambiamenti che avvengono nella sua psiche.

Alice Spisa fa un ottimo lavoro di traduzione, interpreta tre ruoli differenti: risulta molto convincente, attenta ai dettagli dell’interpretazione; negli ultimi due ruoli di moglie e figlia, il linguaggio muta, il tono cambia, l’atteggiamento fisico subisce una corretta metamorfosi. Meno credibile nella prima parte dello spettacolo dove, forse, anche per l’abbigliamento da scolara molto caratterizzante, si nota la distanza anagrafica dal suo personaggio, aspetto che, invece, pur essendo medesima l’età interpretata, non avviene con il personaggio della figlia.

La regia di Stefano Patti trasporta all’interno di una capsula, non sembra più un’anonima cucina, ma un laboratorio dove sperimentare la mente umana, dove nessun passo è prevedibile.

Harrogate non è più una semplice località termale inglese, una città di mare dove trascorrere le vacanze, è un testo teatrale capace di smuovere gli equilibri della natura umana, un modo per comprendere un rapporto complicato tra un uomo e tre donne.

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