Breve omaggio a Leonard Cohen a 90 anni dalla sua nascita attraverso uno dei suoi brani più celebri, rimasto nella storia della canzone
C’era una volta un canadese: pochi i segni distintivi tipici del rocker, ma è stato uno che con la canzone avrebbe avuto molto a che fare, magari approdandovi per strade traverse, transitando (per dire), prima per i sentieri della letteratura. Infatti alla sua apparenza giovane non ricordava uno di quelli che frequentava cantine insonorizzate o locali fumosi, piuttosto uno uscito da una biblioteca (non a caso nel 1955 si era laureato in letteratura inglese).

Leonard Cohen in uno scatto del 1984, anno di uscita dell’album Various Positions, di cui fa parte anche il brano Hallelujah
Capelli spettinati con metodo, un impermeabile che odorava di pioggia anche in piena estate, e soprattutto una voce che non cantava: parlava, declamava, borbottava. Eppure quello – quello di cantare – era il suo destino segnato, ma non nel senso classico del termine. No quello no: quello lo lasciava agli altri. I suoi esordi sono nella poesia: pubblica tre raccolte di poesie a far principio dal 1961, versando poi a seguire la medesima vena malinconica nella forma cantautorale: il primo disco lo incide nel 1967 e già con il terzo, nel 1970 qualcuno grida al miracolo.
La sua vicenda artistica prende presto le dimensioni di una epopea, con la sua inquieta ed erratica personalità (manifestata su ogni piano possibile, non solo quello estetico, ma anche su quello politico e religioso, transitando dalla natia cultura ebraica a quella buddista degli anni maturi).
Stiamo parlando di Leonard Cohen, naturalmente; un gigante della canzone mondiale, che ci ha lasciato qualche anno fa ancora sulla breccia, nonostante la sua età avanzata.
Il transito verso la forma canzone dalla veste letteraria degli esordi era scritto, come un presagio in una sua poesia degli esordi: “Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto può succedere tra l’inizio e la fine di una frase”.
E oggi, di questo parliamo: di un brano eponimo, che racchiude nella sua sostanza tutto il sincretismo religioso (e non solo) di un profeta della canzone: Hallelujah.
Leonard Cohen non voleva cantare una semplice ode al divino: voleva, come sempre, capire qualcosa di Dio, del sesso e della tristezza, ma senza nessuna composta continenza, ma in ordine sparso, così come era la sua vicenda umana.
Pare ci fossero voluti un paio di anni prima che la veste complessiva del brano prendesse forma (ma il brano per molti anni dopo la sua pubblicazione sarebbe stato una sorta di work in progress, per i tanti aggiustamenti che avrebbero scandito la sua forma finale.).
Cohen raccontava di aver scritto qualcosa come 80 strofe, in mutande, inginocchiato sul pavimento di un hotel di New York, battendo le parole su una vecchia macchina da scrivere: e non in uno slancio di misticismo, come potrebbe sembrare a primo ascolto, ma solo per puro esercizio di artigianato, quello che sa coniugare tutti i temi dell’esistere, in un apparente bazar di parole, a suggerire riflessioni a chi l’ascolta.
La religione c’era, sì, ma come uno spettro familiare che ti guarda mentre cerchi il verbo giusto e, uscendo fuor di metafora, giusto nel suo esordio, nell’ispirazione biblica alla vicenda del Re David, infatuato della bella Betsabea, in una relazione adulterina che contrassegnava insulto alla legge di Mosè. Da qui si parte, in esplorazione della fragilità umana. La percussione religiosa è data da quel continuo ergersi di quell’Alleluia al Divino: ma in realtà l’esplorazione rimanda alla complessità della vicenda umana, che di fronte alla grazia del dono divino dell’erotismo, non si lascia imprigionare dalle strettoie delle convenzioni o dei Comandamenti. E allora: è una canzone su Dio, è una canzone sul sesso? Forse niente di tutto questo: solo un inno su come sopravvivere agli errori, ma senza risposte definite, sapendo che il Padreterno riceverà volentieri un Alleluia intonato da un letto disfatto.
La sua casa discografica, ascoltato il pezzo, lo respinse. Troppo cupo, troppo lungo, troppo Cohen. Ma lui, con la testardaggine di certi santi laici, lo infilò comunque in un album del 1984 – Various Positions – che in molti ignorarono e che il tempo avrebbe poi santificato. Sì perché dal 1984 – anno della sua pubblicazione – il brano ha conosciuto una infinità di versioni ed è stato adottato da un numero sempre crescente di interpreti. A cominciare dalla versione di John Cale del 1991 e – soprattutto – da quella di Jeff Buckley, a cui si deve l’interpretazione più riuscita, che avrebbe fatto da paradigma per le tante a seguire. Anche Bono, Bon Jovi e persino il nostro Eugenio Finardi avrebbero poi impresso la propria versione soggettiva del brano. Ma in un inusitato crescendo di popolarità la canzone da oltre 30 anni viene eseguita in Chiesa, ai funerali, ai matrimoni, nelle feste e nelle celebrazioni d’ogni genere, ogni volta adottando una declinazione più coerente con l’evento. E come non dimenticare che fu inserita anche nella colonna sonora del film d’animazione Shrek.

Jeff Buckley, a cui si deve l’interpretazione più riuscita del brano Hallelujah © RSI
Insomma, tanti a cantarla, forse troppi come aveva osservato il suo autore. E anche se non tutti fossero stati in grado di coglierne appieno il senso e la sostanza complessiva, ci piace pensare che il miracolo della sua popolarità risieda tutto nell’insistita esigenza umana di circondarsi di domande per provare a cogliere il significato delle cose.
Hallelujah, Leonard!
Hallelujah – dall’album Various Positions – 1984 – Leonard Cohen – prodotto da John Lissauer – Columbia, Passport