GRIDO D’AMORE: EDITH PIAF – La recensione

Un telo bianco sulle spalle, un bouquet fra le mani; l’uomo si alza, guidato dall’armonica, invoca il suo canto.

Nostalgia nella voce grave: “C’era una volta un fiore, e adesso non c’è più”.

E’ assumendo le sembianze di un malinconico clochard che Gianni De Feo si fa interprete di “Grido d’amore: Edith Piaf” scritto da Ennio Speranza, in scena ai Giardini della Filarmonica lo scorso 27 Agosto.

E’ la storia di un fiore, che neanche sospettava di essere un fiore, che si muove spaesato fra saltimbanchi dai volti variopinti; vive sotto un cielo di zinco.

Se l’intenzione è quella di restituire l’intensità di un’esistenza, ciò accade attraverso un elemento che riesce a riplasmarne lo spessore, il timbro: è nei confini della sua altisonanza che l’ascoltatore fa ad esso corrispondere una nuova linfa, una ripercussione che stimola e trascina il suo immaginario.

Laddove “il est tout noir” nella vita di Edith, ecco che anche il corpo spettatoriale si accinge a contenere un buio, un’oscurità che consenta l’immedesimazione e che predisponga l’occhio a farsi cieco, l‘orecchio a cedere di fronte al rimescolio del suono.

Evocata dal suono stridente della fisarmonica l’immagine torna ora visibile: “anfratti, bordelli, yogurt e assenzio”; d’un tratto l’interprete si libera del mantello, gesticolando plasma torrenti di strade, maledice la memoria parassita, la fissità del dolore.

La storia si articola, ora torrenziale, ora più lenta: ci sembra di intravederne gli elementi dietro la luce bluastra del proscenio, di immaginare le scalcinate camere d’albergo, le urla silenziose di una giovane donna.

Suono sinistro, suono irruente: “Pardon, pardon, pardon”; nell’atto di riprodurre la parola, la gestualità delle mani procede con grazia, si presta a sospensioni, interruzioni brusche, poi liquidi passaggi di atmosfere.

“Piaf” – la ragazza-fiore si riscopre passerotto; muove le ali fra tournèe, cabaret, uomini, musica, tra “abbracci spezzati, anelati, cercati…”: il suono di un carillon ci riporta alla strada, a una strada che è come la vita, che ne ricalca l’aspetto generoso e terribile, che ne richiama le origini.

Siamo in un limbo dove i racconti si fondono; la favola tragica dialoga con nuovi aneddoti, cambia tempo, muta luogo, si mischia con la vita.

E così sulle note di ‘La vie en rose‘, ‘Milord‘ e la struggente ‘Albergo a ore‘ (per citare solo alcuni dei brani proposti) accompagnati dal delicato ed  evocativo  suono della fisarmonica, magistralmente suonata da Marcello Fiorini , il pubblico assiste  al dolore e alla gloria della piccola donna dagli occhi tristi e dalla voce allegra.