“Grazie ragazzi” e il potere liberatorio del teatro firmato da Riccardo Milani

Un laboratorio teatrale da avviare presso la Casa Circondariale di Velletri con i detenuti in espiazione di pena (differenza non di poco conto in termini di reputazione aggressiva, rispetto a quelli in semplice transito per una misura cautelare) è un’impresa che spaventerebbe chiunque.

Ma non Antonio Cerami, il protagonista dell’ultimo film di Riccardo Milani, interpretato da Antonio Albanese, insieme a Sonia Bergamasco, Fabrizio Bentivoglio, Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini, Andrea Lattanzi, Nicola Rignanese.

Antonio ha un passato di attore teatrale, un presente in dismissione esistenziale, una vita sgangherata e solitaria vissuta (ma forse sarebbe meglio dire sopportata) nella squallida periferia est della Capitale, un reddito di pura sussistenza ricavato da performances difficili da confessare perfino alla figlia che vive e lavora lontano.

La proposta del laboratorio gli proviene da uno di quei colleghi furbastri (Michele: Fabrizio Bentivoglio) che -diversamente da lui-  hanno saputo navigare con astuzia nelle fangose acque del teatro contemporaneo, ritagliandosi un ruolo da direttore artistico di uno stabile capitolino (in disparte dalla mentita insegna si riconosce il Teatro Ghione), nel quale –a parte un tranquillo reddito mensile- può lasciar sprigionare indisturbato il suo protagonismo che si affaccia presuntuoso da ogni appuntamento del cartellone. Si tratta di un personaggio da trattare con cura, al riparo dal rischio della sommarietà che il suo standing potrebbe proporre, ma affidato all’esperienza di Fabrizio Bentivoglio il risultato è del tutto plausibile e convincente.

Antonio, di necessità virtù, accetta la sfida, ma non si accontenta di trastullare semplicemente il tempo libero dei pochi, svogliati aderenti al laboratorio, facendo loro mettere in scena performances loffie, il massimo delle aspettative per la dirigenza del penitenziario (impeccabile nel ruolo della direttrice Laura, Sonia Bergamasco).

Antonio ha un’illuminazione.

Si accorge che quella materia umana sopravvive quotidianamente amministrando una dimensione ormai sconosciuta al mondo dei liberi di oggi: quella dell’attesa. Attesa di tutto: del tempo del pasto, dell’ora d’aria, dei colloqui. Chi meglio di loro sarebbe in grado di portare sulla scena quel monumento della drammaturgia contemporanea che è Aspettando Godot? L’illuminazione è una sfida nella sfida, perché, come è noto, il testo di Samuel Beckett è il caposaldo del Teatro dell’Assurdo e nell’aspettativa dell’incontro con questo fantomatico Godot i due protagonisti -i vagabondi Vladimiro e Estragone- si trastullano nel nulla, scambiandosi reciprocamente l’illusione di esistere.

L’illusione dell’esistenza, che si manifesta nell’attesa vana di qualcosa, è la leva sottile che suscita l’interesse dei partecipanti ed è ciò che fa schermo alla loro riluttanza a cimentarsi in qualcosa che a prima vista sembrerebbe al di fuori della loro portata, così come ripetutamente opposto al volenteroso Antonio da chiunque, a cominciare dalla Direttrice Laura.

A forza di prove, manomettendo prima di tutto le rigidità orarie delle scansioni temporali dettate dai presìdi penitenziari (una menzione speciale la merita Nicola Rignanese, che interpreta alla perfezione Ettore, la guardia carceraria ombrosa e ostile) la piccola compagnia di quattro attori è pronta per il debutto. Da questo momento il film sembra la storia perfetta di un riscatto, artistico per Antonio, sociale per i detenuti, con tanto di tournee trionfali.

Ma anche per noi spettatori l’attesa riserva una sorpresa: i personaggi dell’improvvisato sodalizio teatrale conservano intatto il rapporto con la loro realtà, che si annuncia puntuale nelle mortificanti perquisizioni a ogni rientro dopo una replica e ciascuno di loro conserva unalesione nell’identità, difficile da sintetizzare solo con la medicina dell’arte.

C’è Diego (Vinicio Marchioni) che si è fatto una fama da duro in prigione, ma  che sconta con sofferenza il difficile rapporto con la compagna, ostinata nel somministrare al minimo le visite con il figlioletto; c’è Aziz (Giacomo Ferrara) che non si è mai emancipato dalla propria condizione di immigrato e ancora deve elaborare il proprio ingresso in Italia, sulle braccia della madre, in un gommone sgonfio; c’è il giovanissimo borgataro Damiano (Andrea Lattanzi) che soffre di blocchi emotivi che gli incagliano la parola; c’è Mignolo (Giorgio Montanini) che soffre la lontananza dalla appassionata moglie, tentando recuperi di amplesso durante ogni occasione di visita e, infine, c’è il taciturno rumeno Radu (Bogdan Iordachiou) che sterilizza i propri vuoti familiari con le fughe nell’alcool.

Anche se la pellicola è un adattamento di un precedente film di produzione francese, Un triomphe di Emmanuel Courcol, con Kad Merad, premiato agli European Film Awards del 2020, (a sua volta tratto dal documentario Les Prisonniers de Beckett di Michka Saäl del 2005) si sente tutta l’anima della migliore commedia all’italiana: il regista Riccardo Milani definisce caratteri e crea situazioni che ci fanno ridere, ci inteneriscono, lasciando per intero il primato alla riflessione e lo spazio alla sorpresa.

Attraverso il Teatro, partecipiamo allo scontro tra poteri e miserie umane, vincitori e vinti. E constatiamo così, ancora una volta, che nemmeno la nobile Arte è in grado di attecchire nell’animo umano di ognuno di noi se la vita, i percorsi, le scelte, non sono direzionate verso la determinazione di se stessi: così non può esserci risoluzione, né redenzione.

Soggetto e sceneggiatura di Michele Astori e Riccardo Milani.

La fotografia è di Saverio Guarna, le musiche di Davide Canori, il montaggio di Patrizia Ceresani, Francesco Renda.  

Produttori Carlo Degli Esposti, Lorenzo Gangarossa, Mario Gianani, Nicola Serra

Produzione italo-inglese: Palomar e Wildside, distribuzione in italiano: Vision Distribution.