Gli Spettri di Ibsen rievocano i fantasmi del bel teatro che fu

Quando, al finale, il sipario comincia a chiudersi, in sala scoppia l’applauso. Al riaprirsi della tela, con gli attori in proscenio a riscuotere il caloroso e giusto entusiasmo del pubblico del Quirino, a gran voce, qualcuno grida: «Viva il teatro». Non si è trattato soltanto di uno slancio di partecipazione emotiva, di un clamoroso tripudio, piuttosto è sembrato l’urlo disperato di uno spettro seduto in platea assetato di un teatro che in Italia non si ascolta e non si vede più da troppo tempo. Quel teatro scritto dalla penna di un grande autore, letto dall’acume di un esperto regista e interpretato da ottimi attori. Per carità, siamo distanti dai mitici allestimenti degli anni d’oro a cui anche la signora Andrea Jonasson partecipò, ma lo spettacolo riproposto da Rimas Tuminas diventa, nel triste panorama di sterili monologhi in cui ciascuno è scrittore di stesso, un evento commovente: un approfondito lavoro di gruppo intorno ad un testo che è un caposaldo della letteratura teatrale. Così gli Spettri rievocano i fantasmi del bel teatro che fu.

In palcoscenico, gli altri spettri – quelli che hanno ispirato Ibsen – sono le ombre di ataviche convinzioni che continuano a vivere in noi; sono le illusioni edificate a protezione delle proprie debolezze, del timore di solitudini coatte. Gli spettri sono i mattoni di un muro che costruiamo tra la nostra esistenza e la verità che non vorremmo mai né ascoltare né raccontare.

Osvald torna a casa, dopo un lungo periodo trascorso a Parigi, e la sua presenza costringe Helene, sua madre, a riesumare dal passato un bagaglio di menzogne che soltanto la disperazione di lui, e il progredire della malattia ereditata dal padre morto, riescono a strapparle in una confessione liberatoria che abbatte il muro del silenzio, svelando finalmente le angosciose vergogne familiari tenute nascoste per molti anni. Un peccato di omissione che ha impedito la felicità di tutti: un sentimento che Osvald descrive dicendo «io sento il buio»; quel buio che lo porterà al finale a chiedere alla mamma «Ti prego, dammi il sole».

È il dramma dell’infelicità. Infatti, sostiene Ibsen, la felicità non è un diritto, ma forse – ribattiamo noi – è bene che resti una speranza; invece, negli occhi malati di Osvald Alving, purtroppo non esiste nemmeno sotto forma di speranza. Forse perché gli spettri sono privi di ogni speranza, e lui – che un tempo aveva la gioia di vivere e viva era questa speranza – tornando a casa, sente su di sé il peso di quei fantasmi che lo invitano a ricordare cose che la madre rigetta come sogni. Ma sogni non sono.

L’idea del sogno di Helene ha sollecitato il regista a scrivere nelle note che la vicenda si svolge «in uno spazio onirico» e che tutto avviene «nella testa della signora Alving». Questa lettura onirica del dramma, questo sogno ripetuto, nella regia, però, non c’è: anzi, il naturalismo di Ibsen vien fuori fortissimo, sia dall’atteggiamento chiuso e solido dell’ottima Andrea Jonasson, sia dalla disperata malinconia di Gianluca Merolli che gestisce le sofferenze di Osvald con misura costantemente crescente. Anche la scena, bella ed efficace, di Adomas Jacovskis non lascia spazio ad alcuna immaginazione. Vien da pensare, quindi, che Tuminas, forte della sua esperienza, abbia cambiato idea in corso d’opera, e non che si sia fatto schiacciare dalla prepotenza di un autore «assai invadente».

La rivelazione della serata è l’Osvald di Merolli, ma anche gli altri interpreti sono all’altezza della situazione; molto convincente il falegname di Giancarlo Previati sempre in bilico tra il bene e il male; accattivante il pastore Manders di Fabio Sartor che, tra una falsa benedizione e una subdola caramella, lascia il segno con un inaspettato colpo di verità. Perfetta anche la Regine di Eleonora Panizzo.

Frau Andrea Jonasson, bravissima, torna sui nostri palcoscenici dopo parecchi anni nelle vesti di un personaggio che certamente le appartiene, sia per temperamento che per latitudine: probabilmente non ha trovato in Tuminas il protettore che s’aspettava, il quale l’ha ingabbiata in una rigidità che (lo si nota!) le sta stretta. Forse potrebbe sciogliersi appena, com’è nelle sue corde, sia per raccogliere meglio le incursioni degli altri personaggi che per dar consistenza ai suggerimenti dei suoi spettri.

I padri – lo dice anche Ibsen – non muoiono mai!

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Spettri di Henrik Ibsen; con Andrea Jonasson, Gianluca Merolli, Fabio Sartor, Giancarlo Previati ed Eleonora Panizzo. Regia di Rimas Tuminas. Al teatro Quirino fino al 18 dicembre.