Giovannino Guareschi mio padre

Raffaella Bonsignori si è recata presso la casa museo di Giovannino Guareschi, nel parmense, per intervistare il figlio Alberto, che gestisce l’intero patrimonio storico e letterario del padre.

Roncole Verdi. Un’afosa giornata di luglio. Il sole, nella Bassa, sembra parlare da quel suo cielo sazio di calore soffuso; parla e ti avvolge con l’ingordigia dell’estate, che attende immobile e divora l’aria. Di quando in quando qualche nuvola forma geometrie fantasiose e racconta storie effimere a chiunque abbia il tempo di alzare il naso a leggerle. E il tempo non manca di certo, in quell’incantevole luogo, tra macchie d’erbe vive che ti respirano dentro. Ecco, la Bassa respira con te; ti avvolge con i fieri baluardi di una natura madre, tempio di quiete, viscere dell’esistenza, che vive lontana dai tormentosi affanni delle grandi città.  

Raffaella Bonsignori e Alberto Guareschi

Sembra di aver attraversato il tempo verso un passato più semplice: tutto è tranquillo, ordinato, piacevolmente lento; si percepisce l’abitudine al pensiero.

Accanto alla casa natale del Maestro Giuseppe Verdi, insiste una deliziosa costruzione, nella quale, un tempo, dimorò Giovannino Guareschi. Ora è la sua casa museo. Fino a qualche anno fa la gestivano Carlotta e Alberto, i due figli di Giovannino. Oggi, dopo la scomparsa di Carlotta, resta solo Alberto, un uomo discreto, serio, di squisita ospitalità.

«Da dove vengono?» ci chiede con cerimoniosa accoglienza.

«Da Roma»

Si intuisce il rispetto per chi ha fatto tanta strada per raggiungere il suo mondo, il suo piccolo mondo per dirla con le parole del padre; il mondo di una provincia forte come la terra e fertile di semplicità e di bellezza.

Nella grande sala con il camino, su cui campeggia un ritratto di Verdi, sono allestiti pannelli che compongono il quadro di una vita, o, meglio, di un mondo, il mondo del Bertoldo e del Candido, e, più tardi, della Notte, di Oggi, e del Borghese; il mondo dei racconti, dei romanzi, dei disegni, delle lettere; un mondo di parole mai vane, a volte spigolose e a volte buffe, aspre e lisce al contempo, semplici, coraggiose, vere.

Le immagini di Guareschi e alcuni oggetti della sua quotidianità sbucano qua e là a creare una suggestiva scenografia. Sembra la casa delle domande e delle risposte, la casa dei forse, che ognuno ha letto, studiato e che sono lì a narrare una vita spesso al centro di vicende complicate, ricche di guai resi irreparabili dalla tenace volontà di certi uomini di violare i fatti, rendendoli ciò che non sono. Tutti dovrebbero leggere, di tanto in tanto, qualche pagina di Guareschi, imparando, così, la storia, soprattutto quella del dopoguerra; imparandola per quello che è stata e non per quello che, a tavolino, è stato deciso che fosse.

Il desiderio di chiedere al figlio un’intervista si fa corposo e straripa. Alberto Guareschi sorride con lo stesso sorriso che il padre celava sotto i suoi grandi baffi e accetta di buon grado.

Innanzi tutto grazie per aver accettato di parlare con me di suo padre.

Giovannino Guareschi è il giornalista, lo scrittore, il genio umorista, il disegnatore, l’artista a tutto tondo che il mondo conosce, ma per lei e per sua sorella è stato soprattutto un papà. Ecco, vorrei iniziare l’intervista proprio da qui, dalla figura del padre, perché la gente conosce la sua immagine pubblica. Parliamo, dunque, di quello che suo padre, nell’autobiografia Chi sogna nuovi gerani? (che, poi, in perfetto stile Guareschi, è un titolo ricavato dall’anagramma del suo nome), definisce «Il mio zibaldino familiare».

La via dell’amore, del resto, è la più breve per incontrare qualcuno. E di amore, nella famiglia Guareschi, ce n’è sempre stato molto. «Adesso Albertino e Carlotta si picchiano con grande impegno» scrive parlando della vostra prima infanzia. «Poi, si capisce, quando saranno più grandi, si metteranno d’accordo e picchieranno me». Eppure, dal ricordo di lui che lei e sua sorella avete portato avanti attraverso la casa museo di Roncole e attraverso l’associazione, il Club dei Ventitré, non si direbbe proprio …

Quali sono i momenti familiari che ricorda con maggiore trasporto tra quelli vissuti con papà Giovannino?

I momenti più importanti per me e per mia sorella erano quelli passati assieme al babbo (in famiglia lo chiamavamo “babbo”, come usa in Toscana e in Romagna: parlando di lui come “papà” me lo fa sentire estraneo…) quando ci raccontava degli episodi della sua giovinezza. Per lui erano momenti di serenità perché riandava col ricordo ai suoi genitori e per noi erano momenti magici perché riusciva a renderci partecipi delle sue avventure.

È vero, ha ragione, una mia imperdonabile svista chiamarlo papà, dal momento che la mostra antologica si intitola Giovannino nostro babbo!

Il vostro ingresso nel suo mondo attraverso le sue parole mi fa pensare al segreto dell’eternità, che, forse, è proprio riuscire a ricordare con i sentimenti, facendo propria quella parte di esperienza altrui esclusa dalle leggi del tempo, ma non da quelle del cuore.

Ma veniamo al Mondo Piccolo, che non è solo una magnifica serie di racconti ma anche un mondo fatto di gente vera, di caratteri, di tradizioni, di parole in qualche modo strettamente unito a voi.

Quanto di quel mondo letterario, prima, e cinematografico, poi, lei ricorda essere entrato nella vostra casa, nella vostra intimità familiare?

Dopo la guerra la mia famiglia ha abitato a Milano dal 1945 al 1951, prima in via Pinturicchio e poi in via Righi dove aveva trasformato il seminterrato in un cantinone ed erano spesso ospiti i colleghi del babbo: Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Massimo Simili, Alessandro Minardi e Cesare Zavattini. Inoltre venivano spesso Angelo e Andrea Rizzoli, i suoi editori. Le loro visite sono continuate quando ci siamo trasferiti a Roncole e a queste si sono aggiunte quelle del mondo cinematografico impegnato in quegli anni nella serie di film su don Camillo e Peppone: Gino Cervi, Fernandel, il regista Luigi Comencini, l’attore Saro Urzì.

È noto l’ottimo rapporto tra suo padre, Gino Cervi e Fernandel, che hanno interpretato due tra i più famosi e iconici personaggi del mondo Guareschi, ossia il sindaco comunista Peppone e il prete reazionario Don Camillo, animando cinematograficamente la piazza di Brescello, ancora oggi dedicata a loro.

Ha qualche ricordo di questi due grandi attori fuori dal set?

Li ricordo come persone gentili e cortesi. Nel 1951 li ho incontrati a Brescello sul set del primo film della serie e mi hanno donato la loro foto con l’autografo. Li ho rincontrati nel 1955 all’Hotel Toscanini a Parma al termine della lavorazione del terzo film e mi è rimasta impressa la spiegazione che Fernandel fece ad un cameriere sul modo di servire il Pernod: «Dans un grand verre avec une petite carafe en céramique remplie d’eau froide naturelle!» (n.d.a. «In un grande bicchiere con un bricco in ceramica riempito d’acqua fredda naturale»).

Fernandel e Gino Cervi sono stati presenti nel 1965 al matrimonio di mia sorella in qualità di “testimoni a latere” e hanno partecipato al successivo pranzo di nozze assieme al regista Luigi Comencini e all’attore Saro Urzì che era molto affezionato a mio padre e lo aveva visitato in carcere nel 1955 quando stavano girando Don Camillo e l’onorevole Peppone. Negli anni successivi Gino Cervi ha pranzato diverse volte nel mio ristorante assieme alla compagna Erika Mayer.

Guareschi era un umorista eccezionale, raffinatissimo. Lo era anche in famiglia?

L’umorismo è un dono che il Padreterno fa a pochi privilegiati. Mio babbo, come tutti gli umoristi, era malinconico e stava volentieri per conto suo. Però, quando gli capitava di trovarsi in situazioni particolari e con la giusta compagnia, era di una simpatia irresistibile. In famiglia usava l’umorismo in giusta dose, ricordandosi del suo ruolo di pater familias. Ma quando si verificavano situazioni particolari riusciva ad essere irresistibile anche con noi figli.

Bella questa immagine di Guareschi padre e maestro di vita, giocoso solo quanto basta.

Fuori dalla famiglia, però, la gioiosità, l’arguzia, lo stile di Guareschi si sono scontrati con diverse strade in salita molto difficili da percorrere. Innanzi tutto il lager. Immediatamente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Giovannino Guareschi, essendosi rifiutato di continuare a combattere al fianco dei tedeschi, viene da loro imprigionato. La vita del lager è durissima. La descriverà nel Diario Clandestino. Due anni lunghi da passare, nel corso dei quali riesce a conservare intatta la propria dignità. Lì compone anche La favola di Natale, da lui stesso illustrata: un gioiellino inestimabile che parla del Natale, dei sogni che prendono vita, del Buonsenso e della Poesia rimasti fuori dalla porta della guerra; e parla di un bambino, il piccolo Alberto, dei suoi compagni di avventura, ossia la nonna, il cane Flick e una lucciola, parla della mamma che è rimasta a casa con la piccola Carlotta. Un quadro familiare che, in un contesto onirico quasi beckettiano, si apre a considerazioni profonde sul senso della pace e della guerra in attesa che nasca Gesù.

Il piccolo Alberto come ha vissuto il Natale lontano dal papà?

Grazie a Dio (e grazie a mia madre e ai miei Nonni…) ho passato i due Natali lontano dal babbo bene perché, nonostante il razionamento e la tessera annonaria, mia madre è riuscita miracolosamente a fare il pranzo di Natale e a “mobilitare” il Bambino Gesù che, in trasferta da Milano, mi ha portato dei poverissimi ma splendidi doni sotto l’albero. Doppia festa perché, pochi giorni prima era intervenuta Santa Lucia, mobilitata dai Nonni, e mi aveva riempito di doni la scarpetta posta sul davanzale…  

È, poi, la volta delle verità scomode di cui si rende portavoce sul Candido, come quella relativa alle violenze che videro protagonisti i partigiani comunisti nel cosiddetto Triangolo della Morte, ossia nella zona tra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara e, più estesamente, nel nord
Italia al tempo della guerra civile seguita all’armistizio.

Il Leviatano del comunismo ha, dapprima, fatto scempio dei partigiani “bianchi”, ossia di tutti coloro che, pur antifascisti, non avevano abbracciato la “fede” sovietica, quindi, giunto ormai in età di democrazia, ha cercato di nascondere sotto il tappeto le proprie malefatte. Guareschi, però, inflessibile e burlone al contempo, inizia a sciogliere a modo suo il nodo gordiano di quel perfido silenzio. Arrivano le vignette dei trinariciuti, a causa delle quali Palmiro Togliatti lo definisce «tre volte cretino». Di solito, risposte inasprite arrivano quando si viene colpiti nel vivo.

Quale eco giunse in famiglia di questa sua battaglia?

La guerra civile iniziata dopo l’armistizio del 1943 e terminata nel maggio del 1945 aveva aumentato la spirale della violenza che si era creata in quegli anni, amplificata dal timore esasperato che la gente aveva del comunismo e dei comunisti: non dimentichiamo che in quel periodo circolava la dice­ria sui comunisti che mangiavano i bambini… Mio padre sapeva che, utilizzando l’arma dell’umorismo si poteva sdrammatizzare la situazione, magari rendendo ridicola una persona o una circostanza che fa paura e facendo calare il timore nei loro confronti. Le sue vignette e, in particolare, quelle dell’«Obbedienza cieca, pronta e assoluta» giocate sulla ridicola applicazione alla lettera da parte dei comunisti di un ordine dell’«Unità» contenente un refuso, hanno contrassegnato un’epoca e sono riuscite a diminuire la tensione. Felice anche l’invenzione della “terza narice” disegnata nel naso dei comunisti specificando che era servita per cavare il cervello da versare all’ammasso del Partito che avrebbe pensato per tutti loro. Quei disegni davano molto fastidio ai comunisti, specie nel periodo elettorale del 1948 e mio padre ricevette diverse minacce di morte. In casa giunse l’eco di questo suo impegno e fui proprio io a trovare una di queste minacce incollata sulla porta del pianerottolo di casa nostra in via Pinturicchio: sul foglio il disegno di un uomo con i baffi impiccato e la scritta: «Tu sei il primo della lista!»

Una frase orribile e ricorrente, purtroppo. Anche in epoca più recente, durante i cosiddetti Anni di Piombo era una minaccia che si sentiva spesso.

Non deve essere stato facile. Un conto è venire minacciato, un conto è che la minaccia arrivi sulla porta di casa, davanti agli occhi dei figli …

Lui, però, ha mantenuto saldo il carattere e, soprattutto, non ha mai smesso di agire secondo le proprie convinzioni.

Guareschi resta Guareschi, dunque, e ogni suo minimo movimento, nei precari equilibri del dopoguerra, si amplifica a dismisura. Inevitabile che susciti timore. Forse anche per questo si giunge a due vicende giudiziarie, due processi penali.

Il primo è per vilipendio. Nel 1950, Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica, si sente vilipeso a seguito di una vignetta pubblicata sul Candido, vignetta nella quale due file di bottiglie fungono da corazzieri presidenziali. Parliamo delle stesse bottiglie di vino sulle quali il Presidente, proprietario dei vigneti, sin da quando era senatore, aveva fatto scrivere il proprio nome e la propria carica. Dove sia il vilipendio risulta davvero difficile da capire. Ciononostante, Giovannino viene condannato ad otto mesi di carcere con pena sospesa.

Il secondo è quello per diffamazione nei confronti dell’on. Alcide De Gasperi, che gli costa il carcere, poiché viene eseguita anche la pena sospesa di quattro anni prima. La vicenda è semplice. Nel 1954 Giovannino Guareschi, allora Direttore del Candido, pubblica due lettere a firma di Alcide De Gasperi, che facevano parte di un più ampio compendio documentale noto come Carteggio Mussolini – Churchill; due lettere che, prima della pubblicazione, fa autenticare da un consulente grafologo, perito presso il Tribunale di Milano. Dalla sua perizia giurata emerge che sono autentiche e Giovannino non vede ragione per privarsi di quello scoop. E che scoop! Dieci anni prima Alcide De Gasperi, partigiano bianco rifugiato presso il Vaticano, avrebbe usato indebitamente la carta intestata del Papa per chiedere agli alleati di bombardare la periferia di Roma. A tal fine avrebbe indicato quale obiettivo principale l’acquedotto, senza disdegnare anche obiettivi civili. Pare volesse sollecitare la popolazione a reagire contro il fascismo, cosa che era ancora restia a fare.

Nel corso del processo, però, non viene ascoltato il consulente di parte, non viene nominato un perito, non vengono nemmeno prese in considerazioni altre prove: è sufficiente la testimonianza scritta di due ufficiali inglesi, brevi temini preparati a tavolino, e, soprattutto, la parola di De Gasperi che afferma di non averle scritte (sic!).

Guareschi si rifiuta di fare appello, nonostante fiocchino insistenze anche dai piani alti. Affronta stoicamente una punizione che ritiene ingiusta e che, meglio dell’appello, meglio della grazia, racconta la verità.

Dopo il processo molte furono le reazioni: chi brindò, come Eugenio Montale, e chi, come l’on. Giulio Andreotti, disse che Guareschi aveva solo peccato di ingenuità, agendo con colpa e non con dolo, ossia senza l’intenzionalità richiesta dal reato imputatogli.

Una domanda che le avranno rivolto spesso: lei cosa pensa di quelle lettere?

Io sono convinto, come lo era mio padre, che le lettere fossero autentiche. Due anni dopo il processo la magistratura ne decretò la distruzione. Per quale ragione? In ogni caso mio padre ha strapagato il suo “debito” con carcere duro e libertà vigilata ed era tranquillo perché l’unico tribunale in cui lui credeva, il “tribunale dei suoi lettori”, lo aveva assolto.

In un bellissimo volume edito da Rizzoli, Caro Nino, ti scrivo (2024), lei ha raccolto moltissime lettere di suo padre o a lui dirette mentre era in carcere.

Ecco, le chiedo di parlarmi di questo libro, uscito di recente, della corrispondenza con voi figli e con vostra madre, da lui scherzosamente appellata vedova provvisoria. Ho letto una lettera carina, in cui la ringraziava per le sue parole, si complimentava per i successi scolastici ma le suggeriva una grafia più leggibile …

Come e quando è nata l’idea di raccogliere in un volume parte della corrispondenza di suo padre dal carcere e che effetto le ha fatto leggere o rileggere quelle parole?

I lettori di mio padre da anni insistevano perché io e Carlotta raccontassimo in un libro com’era in famiglia. Quando mia sorella è mancata mi sono reso conto che, essendo io l’unico depositario dei ricordi familiari, questi sarebbero scomparsi assieme a me nel mio passaggio ad Altra Amministrazione. Così qualche anno fa ho provato a imbastire una scaletta della nostra vita in famiglia basandomi oltreché sulla memoria, sui documenti del ricchissimo archivio che mi ha lasciato mio padre che nel corso degli anni ho letto e reso facilmente reperibili. Mi mancava solo la lettura della corrispondenza ricevuta in carcere e questa è stata resa possibile grazie al Covid: nel periodo di clausura imposta sono riuscito a leggere le 27.000 lettere, bigliettini e cartoline ricevute e a ricostruire il periodo passato in carcere. Da questa lettura è nata l’idea di questo libro rimandando quello sulla vita in famiglia alla prossima puntata…

Secondo lei pesò di più il lager in Polonia o il carcere ingiusto seguito all’affaire De Gasperi?

Nell’aprile del 1955 mio padre scrisse dal carcere a mia madre: «Ho sofferto più in questi dieci mesi di galera italiana che in due anni di Lager tedesco. E qui non ho il problema della fame, del freddo, dei pidocchi e non rischio la pelle come la si rischiava lassù! Se lo potessi, preferirei trascorrere 20 mesi in un Lager d’allora che altri dieci mesi qui.»

La biblioteca Guareschi, consultabile nella casa museo di Roncole, che, ci tengo a sottolinearlo, è visitabile liberamente, accoglie solo libri o è anche archivio documentale?

La consistenza della biblioteca di mio padre è inserita nel mio sito https://www.giovanninoguareschi.com/biblioteca-guareschi.pdf, assieme a quella della Bibliografia sugli IMI curata da mia sorella https://www.giovanninoguareschi.com/Biblioteca-IMI-Carlotta.pdf. e a quella del Club dei Ventitré. I volumi sono tutti consultabili e stiamo organizzandoci per i servizi di prestito e riproduzione, sia diretti, sia interbibliotecari.

Gino Cervi e Giovannino Guareschi

Insieme a lei, vorrei ricordare ai lettori che l’associazione Club dei Ventitré prevede anche un notiziario, Il Fogliaccio. Potrebbe parlarmi brevemente dell’associazione e di questa pubblicazione?

La nostra associazione culturale è stata costituita nell’aprile del 1987 e vuol essere un punto di riferimento per tutte le persone che sono interessate a mio padre e alla sua opera. «Il Fogliaccio» nasce nel 1988 ed è il periodico quadrimestrale del Club dei Ventitré che dà notizia di tutto quanto viene fatto per approfondire e diffondere la conoscenza di mio padre.

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Grazie per aver dedicato il suo tempo a me e al giornale per cui scrivo. Non celo emozione per aver avuto occasione di conoscerla e di parlare con lei: ha donato ai lettori una striscia di tempo privato capace di completare quello pubblico, mostrando un Guareschi padre amabilmente stagliato sul fondo della sua meritata e sempiterna fama di intellettuale e di portatore di verità, quand’anche scomode. Sicuramente invito tutti a visitare la casa, ad usufruire della biblioteca e, soprattutto, ad associarsi al Club dei Ventitré, lasciando che leggenda e novità si intersechino tra loro, in un perpetuo divenire.

Foto di @Raffaella Bonsignori