Ho cercato di lavorare sulla maternità e umanità della dea.
Giovanna di Rauso torna al Teatro greco di Siracusa, diretta da Paul Curran, nel ruolo di Artemide in Fedra Ippolito portatore di corona, in scena per la 59° edizione del festival. Lo spettacolo ha conquistato ed emozionato il pubblico grazie ad un impianto scenico contemporaneo, e una direzione regista che mette in luce temi come la follia, l’amore non corrisposto, l’incomunicabilità e le relazioni tra genitori e figli. Abbiamo chiesto alla Di Rauso di parlarci del suo personaggio, il rapporto con questo, con il luogo, con la regia e con gli spettatori.
Ha iniziato prestissimo a calciare le scene del palcoscenico. Scoperta giovanissima da Giorgio Strehler, con il quale debutta nei «I giganti della montagna», nel ’99 vince il premio Hystrio per Giovani Talenti. Vanta collaborazioni con Luca Ronconi, Gabriele Lavia, Sergio Rubini nel cinema, Castri, Scaparro e Muccino in televisione, solo per citarne alcuni. Il suo incontro con Siracusa è già avvenuto nel 2014, dove per il centenario dell’ Agamennone, interpretava Cassandra e nel 2019 nel ruolo di Mirrina nella Lisistrata di Aristofane diretta da Tullio Solenghi. Come è cambiata la sua percezione di questo teatro, sia dello spazio che del pubblico, rispetto a oggi, nel quale si trova ad interpretare Artemide in Fedra, per la regia di Paul Curran?
In realtà vengo per la prima volta al Teatro Greco nel 2006, con la regia di Mario Gas facevo Elena di Troia nelle Troiane. Poi sono tornata nel 2014 e nel 2019, e in seguito l’anno scorso dove interpretavo Circe con la Regia di Giuliano Peparini, dove eravamo cento persone e quattro attori. Questa è la mia sesta volta al Teatro di Siracusa, ma ricordo bene il mio primo debutto, nel 2006 è stato il panico. Non ero abituata a recitare guardando il pubblico, perché questo teatro ha una potenza e una magia talmente forte che un attore si sente piccolo Abituata a recitare a teatro dove il pubblico non lo vedi, è stato un grande choc all’ inizio, poi ovviamente questa cosa l’ho assorbita, nei vari anni. Il pubblico è sempre calorosissimo, quando ho fatto Cassandra nell’Agamennone, nel 2014, mi sono sentita una rock star, perchè il pubblico partecipa alla storia dei personaggi. È chiaro che i ruoli più emotivamente carichi, come può essere una Cassandra, o una circe, sono quelli che il pubblico vive di pancia vive, e li premia di più perché si immedesima nella loro sofferenza e nel loro conflitto. La partecipazione è anche in base al ruolo che interpreti, per esempio quando feci Elena di Troia, il pubblico l’ho sentito molto partecipe, forse perché l’antipatica della situazione.
Il tuo personaggio, Artemide, conclude la tragedia. Che rapporto hai con questo personaggio? Ci sono aspetti sui quali hai lavorato, hai puntato, hai smussato o forzato per poter interpretarlo? Quale è stato il tuo rapporto con questa messa in scena e con il regista?
Artemide era una cacciatrice, un’ amazzone e anche una protettrice degli adolescenti con i quali organizzava diversi ritiri, così come con le ninfe e le fanciulle, prima che queste si sposassero e seguissero il proprio destino. Chiaramente la verginità e la castità di questa dea mi ha fatto molto pensare. Le dee sono viste in modo più distante, più freddo, distaccato, invece io ho cercato di lavorare sull’umanità di Artemide, sulle sue fragilità e sull’aspetto più materno nel suo rapporto con Ippolito. Ho cercato di lavorare sull’umanità di questa dea piuttosto che sulla sua alterità. Pouchè è già tutto imponente, dall’ingresso, al vestito, al mantello lunghissimo e all’elmo imponente. Nella rappresentazione è tutto molto imponente, mi trovo a scendere da questa scala ed ho un mantello lunghissimo e un elmo molto evidente. Artemide arriva in questa tragedia per aprire gli occhi a Teseo, per portare giustizia, essendo stato Ippolito il suo più grande seguace. Nella tragedia sono presenti le leggi politiche, non ci si può opporre alla decisione del dio e tutti devono accettarla. Artemide non può dunque salvare Ippolito e questo la porta ad un conflitto.
Il personaggio di Ippolito è fortemente legato alla figura di Artemide. In che modo, secondo te, questo rapporto si concretizza nello spettacolo?
Ippolito sin dall’inizio della tragedia segue la linea guida di Artemide, ovvero la castità, la vita selvaggia, la vita nei boschi, fuori dalla politica e dalla città. L’incontro tra Artemide ed Ippolito avviene in punto di morte. Artemide non è riuscita a salvarlo, confidandogli che era suo destino morire così. Penso che, in qualche modo, Artemide abbia cercato di consolarlo. Artemide è una dea protettrice, ed è meno coinvolta nei giochi di potere degli dei, proprio perché vive isolata. Uno degli aspetti sui quali ho lavorato per il personaggio è il lato accudente e protettivo rispetto ad un Afrodite che scherza con gli umani. Artemide si vendicherà di Afrodite uccidendo l’umano che le è più caro. In qualche modo questa tragedia è una lotta tra Dei, tra Afrodite la dea tipica, quella capricciosa, che fa i suoi giochi di potere e Artemide, più contemporanea, ha scelto la castità che è la risposta alla poli sessualità. Artemide è una dea più umana, nel finale della tragedia concretizzerà il suo rapporto con Ippolito e si mostrerà come una madre, accogliente e protettiva. Al di la della rabbia che ha contro Teseo, per la sua stupidità, che lo ha portato a fidarsi ciecamente della lettera per punire il figlio bastardo, che usciva fuori dalla sua idea di famiglia perfetta. Artemide cerca di farlo ragionare, di fargli capire l’errore che ha commesso ma non con un senso di vendetta piuttosto la vendetta Artemide la prova contro Afrodite, che ha giocato sporco.
Quest’opera parla, tra le altre cose, di quanto dolore si scatena nell’ impossibilità della comunicazione. Secondo te questo tema è ancora attuale? e in che modo può farci riflettere?
In un frangente di una scena iniziale, viene utilizzato un telefono cellulare, che rappresenta lproprio la ritrazione della parola e come la comunicazione virtuale abbia sostituito l’incontro e lo scambio fra le persone. E’ uno spettacolo ricco di incomprensioni, abbiamo dei personaggi come Fedra ed Ippolito che non si incontrano mai, che non si parlano, e questa non comunicazione la vedremo tra la nutrice e Fedra, Teseo con il figlio. Oggi abbiamo questo problema con la comunicazione che è diventata molto più virtuale che sociale, le persone non si incontrano più come una volta e fuggono dalle interazioni fisiche con il mondo.
Il teatro è un rito e si realizza solo attraverso l’incontro; l’incontro tra gli attori e il pubblico, tra il regista e gli interpreti, tra un testo millenario e il tempo presente. Ma l’incontro è anche tra il mondo terreno ed ultraterreno, che si caratterizza nella presenza delle dee Afrodite e Artemide accanto agli uomini, Ippolito, Fedra e Teseo. Secondo te, quanto quest’opera può insegnarci proprio attraverso l’incontro?
Sicuramente essendo il teatro un punto di incontro, nel mondo greco era considerato ai vertici dell’idea di civiltà. Assistere ad uno spettacolo era un evento sacro, perché era un incontro tra il mondo ultraterreno e quello profano. Considerato un rito collettivo a cui si assegnava una funzione pedagogica, il teatro serviva per riflettere sulla condizione umana, confrontarsi e misurarsi con le difficoltà della vita con il bene e il male, il sacrificio dell’amore e il dominio della morte. Il thanatos come catarsi, l’eroe che paga il filo delle sue azioni. In qualche modo il teatro è un rito collettivo perché la ritualità, che fa parte della vita, la relazione tra le persone, ti fa diventare consapevole di te stesso. In qualche modo il pubblico rivedendosi nei personaggi entra in relazione con se stesso.
Io penso che il teatro sia la risposta alla non comunicazione che stiamo vivendo in questa nostra fase dell’esistenza. In qualche modo c’è una pigrizia latente e questo fa si che le persone non si mettano più in gioco. L’attore ha questa importante responsabilità, attraverso la parola rappresentare un personaggio che agisce sull’immaginazione dello spettatore. Questa responsabilità è anche dei drammaturghi. Il teatro, in qualche modo, può vivere solo grazie alla comunione tra attore e spettatore. L’attore lavora su se stesso e in qualche modo distrugge la sua maschera quotidiana, che è anche la maschera di tutti noi. Ognuno di noi ha una maschera sociale e in qualche modo, in quell’intimità data dallo spazio scenico, c’è proprio l’incontro tra gli esseri umani. Il teatro resta, e resterà, l’unica rivoluzione possibile in un mondo circondato dall’intelligenza artificiale. Il teatro accade solo in quel momento, ogni sera è diverso perché l’incontro con il pubblico è diverso. L’energia che ti rimanda lo spettatore fa si che l’attore risponda, ed è un esperienza sempre unica. Il teatro dovrebbe scuotere le coscienze delle persone. Il teatro è una delle forme d’arte più importanti perché coinvolge l’essere umano e in qualche modo, può scuotere le coscienze.
Durante la conferenza stampa, il regista scozzese parla di approccio nuovo alla tragedia. In che cosa si concretizza quest’approccio secondo te?
Curran ha lavorato su questo testo non considerandolo una tragedia ma una storia. La rappresentazione inizia con una danza Hippie dei seguaci di Artemide, che in qualche modo rompe gli schemi, anche perché erano dei seguaci misogini e casti. Questa danza può anche essere vista come qualcosa che va a scontrarsi con il testo, ma il regista ha voluto partire dal sentimento della gioia per poi parlare della malattia mentale, di questa follia che colpisce Fedra. Curran ha portato in scena un lavoro molto moderno sul testo, ha lavorato molto sulle relazioni tra padre e figlio, sui rapporti umani, scrollando questa cappa di tragedia ne ha voluto fare una storia, dove la tragedia alla fine arriva.
To play: Curran ha avuto un atteggiamento molto più giocoso. Ha creato un dramma psicologico, anche se nella tragedia greca non se ne parla molto di psicologia, ha avuto un approccio leggero rispetto alla parola tragedia ma allo stesso tempo ha lavorato sulle relazioni umane.
È stato un bellissimo gruppo di lavoro, abbiamo lavorato pacificamente e molto positivamente. Curran è un grande motivatore, sempre molto positivo, da molta responsabilità agli attori. Lui interviene all’inizio e ti dà delle indicazioni ma poi vuole che tu prenda il personaggio tra le tue mani, non vuole intervenire nella tua lettura del personaggio. E’ stato un lavoro di responsabilità e sono contenta di essere riuscita a trovare una connessione emotiva con Artemide che è arrivata al pubblico.
Mi fa molto piacere aver trovato una connessione più diretta anche con il pubblico e non essere rimasta lo stereotipo della dea come lo è nell’immaginario di oggi giorno.
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Fedra di Euripide – regia di Paul Curran, traduzione di Nicola Crocetti, Scene e costumi di Gary McCann, con Ilaria Genatiempo (Afrodite), Riccardo Livermore (Ippolito) Sergio Mancinelli (servo), Gaia Aprea (Nutrice), Alessandra Salamida (Fedra), Alessandro Albertin (Teseo), Marcello Gravina (Messagero), Giovanna Di Rauso (Artemide), Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano (Corifere) Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella (Coro di Donne Trezene). Teatro Greco di Siracusa dal 25 maggio al 28 giugno
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