Intervista a Gianluca Ferrato, dal 21 gennaio sul palco dell’OFF/OFF Theatre con “La cerimonia del massaggio”.
Attore e regista dalla carriera articolata e versatile, Gianluca Ferrato si conferma un interprete capace di passare con naturalezza dal dramma alla commedia, dimostrando una profonda sensibilità artistica e un’ altrettanto profondità espressiva. Il suo approccio al teatro – o meglio, la sua dedizione al teatro – riflette una grande passione ed un’innata capacità di stabilire una connessione emotiva con il pubblico. Una carriera, la sua, esempio di dedizione all’arte e di costante ricerca di nuovi stimoli. Così, all’alba del debutto sulle scene romane con La cerimonia del massaggio, dirompente pamphlet di Alan Bennett, attraversiamo insieme a lui la complessità, la profondità e l’universalità della sua drammaturgia e non solo…
Dopo essersi cimentato nella drammaturgia e poetica di Guillaume Gallienne con “Tutto sua madre”, sta per debuttare con un altrettanto potente testo di uno dei detentori del British wit, Alan Bennett. Per quanto provenienti da contesti culturali differenti, trova delle similitudini nell’approccio drammaturgico della loro penna?
Mah guardi, sono molto diversi nella sostanza perché Guillaume Gallienne non è di fatto uno scrittore, ma un eccellente attore che si è prestato a scrivere una storia che lo riguarda; perché “Tutto sua madre” è la sua storia. Poi siccome è un uomo di sovrana intelligenza ha scritto un testo spasmodico nel suo genere. Bennett è un drammaturgo e uno scrittore tout court; quindi ha una penna e una sostanza molto diversa. Poi certo ci sono dei tratti che confinano: il senso del grande gioco; del divertimento; il senso straordinario dell’ironia che entrambi possiedono. Ma appartengono anche a generazioni molto diverse: quest’anno Bennett nel 2024 ha compiuto 90 anni, Guillaume – non so – ne avrà quarantacinque, cinquanta. Uno è francese, transalpino; l’altro inglese, quindi con uno humor diverso. Diciamo una cosa: hanno scritto due storie meravigliose tutti e due in modi molto diversi ed è molto appagante mettersi in bocca le loro parole.
“La cerimonia del massaggio” è un pamphlet dirompente che traccia i contorni di una vera e propria tragicommedia umana. I temi che emergono sono molteplici: dall’ipocrisia sociale all’ambiguità sessuale. Ma tra tutti, emerge preponderatamente la critica alla religione; alla formale sacralità delle istituzioni religiose intorno alla quale Bennett costruisce la sua satira. Come descriverebbe l’esperienza di indossare i panni del reverendo Geoffrey Joliffe?
Mah guardi, intanto non mi sono mai messo nella condizione del giudizio. Questo mai, anche nei confronti della chiesa. Mi viene da dire – come diceva Sciascia – ≪ a ciascuno il suo≫. Quindi non ho pensato a bacchettare; o a dire ≪ adesso mi metto in cattedra e la metto giù nei confronti della chiesa≫. Lo fa già abbastanza Bennett con le sue parole; nel senso che è chiaro che la critica è molto forte. Siamo lontani dal verso di Lucio Dalla ≪anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto ad una certa età≫ e quindi non potranno trasgredire come invece padre Geoffrey fa innamorandosi in fondo di questo celebre massaggiatore che non amava. Cioè, Geoffrey amava questo Clive Dunlup, il massaggiatore; ma non era riamato. Poi certamente, non lo saprà mai. Di fatto lo pagava, ma dice ad un certo punto ≪avere te in mutande sul mio divano e guardavi la tv mentre io ti cucinavo due uova strapazzate è la cosa che più si è avvicinava alla vita con qualcuno che io abbia avuto≫ perchè in fondo tendiamo tutti alla felicità e non sempre la felicità è laddove ci chiedono i requisiti per esserlo come in questo caso.
Questo padre certo è che vive una feroce dicotomia; un’impossibilità ad essere e quindi diventa non essere. Però certamente ci prova. Però certamente lo dice. Però certamente chiama le cose con il loro nome, questo coraggioso prete. Ecco, mi sembra bellissimo l’atto di coraggio, devo dirle, che quest’ uomo fa. E questa è la cosa che forse più di tutte… uso una parola che mi fa un po’ orrore perchè la usano tutti; mi fa schifo. Però è la cosa che mi sta più addosso; che mi marca più stretto – il senso di chi si è a dispetto di quello che il mondo vorrebbe che tu fossi. Ecco, questo è uno degli aspetti che più mi commuove perché parla… poi, sa, i monologhi sono sempre un viaggio dentro se stessi ed è stupefacente che la risposta che tu cerchi è spesso dentro di te. E quindi anche nel fare questo testo non ho mire pretesche, però certamente ho trovato delle similitudini con la mia vita. Vuol mettere che meraviglia è questa!
Teatro e religione hanno di sicuro in comune una profonda radice antropologica: condividono entrambi una funzione rituale del loro linguaggio e gestualità – nonché dello spazio, con lo scopo di trascendere il quotidiano. Quello di Bennett, che rituale è secondo lei?
Intanto mi viene da dire che spesso e volentieri è un rituale del riscatto. Nel senso che anche qui, nel romanzo, il finale è un riscatto. Nel senso che lui perde; sotterra idealmente Clive Dunlup; ma offre al giovane Danny Hopkins un the. Il ragazzo dice di no; poi torna indietro. Quindi è il riscatto dell’amore senile nei confronti del ragazzo giovane. E se penso a “The history boys”, altro capolavoro di Bennett, anche lì c’è il professore anziano che cerca di ingraziarsi il giovane e bello studente – che a teatro, nella versione inglese, era Dominic Cooper. Ecco, credo che il senso del riscatto… specialmente nel rimettere a posto i rapporti sentimentali tra un uomo grande e un ragazzo giovane, che è un argomento anche quello tabù: non si può dire; è quasi scandaloso questo fatto. Mentre non lo è che un uomo grande abbia un interesse per una ragazza giovane, è al contrario scandaloso se la donna grande ha un interesse per un ragazzo giovane. Figuriamoci un uomo grande per un ragazzo giovane! E in questo è formidabile il senso di riscatto di Bennett che ha sempre questi temi. Il riscatto è lì.
Penso a “The Lady in the Van”, magistralmente fatto da Maggie Smith, nel suo rapporto con questo scrittore che poi è lui, lo stesso Bennett… C’è in sé il senso di rimettere a posto le cose o riposizionarle rispetto a quello che il mondo pensa. E anche ne “La cerimonia del massaggio” accade questo: c’è un senso di anelito alla libertà che per ognuno è una libertà diversa; ma è formidabile questo senso che ha. È molto commovente; è molto lucido questo senso che ha!
E per lei il teatro che tipo di rituale rappresenta? Qual è il suo rapporto da artista e da “laico” con il teatro?
Guardi credo di avergli dedicato molto della mia vita, al teatro. Sono uno che è partito dalla provincia ed ha affermato la propria identità di uomo e di attore venendone via e il teatro è stata sicuramente una catarsi molto importante. Forse trova una realizzazione soprattutto in questi anni e soprattutto nella fase di monologhi: prima, “Truman Capote”; poi “Tutto sua madre”; adesso “La cerimonia del massaggio”. L’anno prossimo, “Beata oscenità”, uno straordinario monologo scritto da Massimo Sgorbani che dirigerà Serena Sinigaglia. Quindi, insomma, la vita dell’uomo solitario in scena è molto grande per me. E il teatro ha avuto una funzione… io non so se guaritrice – mi fanno un po’ ridere questi discorsi – però certamente le ferite le ha lenite in certi momenti…
Guardi, quando provavo “Così è (se vi pare)” – che sto ultimando con Milena Vukotic e Pino Micol – durante le prove, avevo subito un grande trauma da abbandono del mio compagno; credo che il teatro – mi commuovo forse un po’ a dirlo – è stato in quel momento salvifico; forse io non ce l’avrei fatta. Quindi pensi che valore ha…. è come quando uno mette su la musica, diventa terapeutico in qualche modo per chi la fa e per chi la ascolta anche. Devo dirle che ha sicuramente una funzione molto grande; molto importante. Ha attraversato la mia vita, il teatro. Non per retorica da quattro soldi, perché poi molti la fanno e non è vero; io credo veramente nel mio caso che sia stato così. Credo ci siano stati degli appuntamenti nel teatro che hanno coinciso poi con la mia vita o che si son fatti coincidere con la mia vita.
Mi ricordo un momento, per esempio, quando feci “Truman Capote”… uscì questo paginone sul nazionale del Corriere Della Sera dove Franco Cordelli, che è un uomo illuminato, scrisse che l’aver cantato; l’aver fatto spettacoli canori mi aveva probabilmente allontanato dalla potenza che io potevo avere con la parola semplicemente detta. In questo paese cantare non è come negli altri paesi, dove se tu canti hai di più… invece qui è una specie di limite; come gli attori che cantano sono quelli che non sono arrivati a fare la prosa tout court, diciamo così. E io l’ho presa per buona e ho smesso di cantare, di fare spettacoli canori. E quello lo considero un momento di snodo della mia vita professionale e in qualche modo umana, perché ha a che fare con l’umanità questa roba. Pensi quindi come si intersecano le cose!
Proprio perché mi ha citato “Così è (se vi pare)”, per cui prosegue la tournée al fianco di Milena Vukotic e Pino Micol, è possibile rintracciare nell’umorismo Pirandelliano delle similitudini con la drammaturgia di Gallienne e Bennett? Pur appartenendo a epoche e contesti distanti, rintraccerebbe una sensibilità comune?
É molto interessante questa domanda, devo dirle! Sa, anche “zio Luigi” – come lo chiamo io – è stato “Uno, nessuno, centomila”; ha decretato questo “Uno, nessuno, centomila”. In fondo, questo senso dell’apparire; dell’essere… Pensi a Padre Geoffrey che appare, ma poi anche è; vorrebbe essere, ma invece deve apparire. Le famose maschere? Uh, se padre Geoffrey la mette su; se ne mette su tante! Guillaume, tutto sommato, quante volte si maschera davanti alla madre per poi incontrare finalmente la donna della sua vita avendo cercato disperatamente di essere omosessuale, perchè la madre voleva che lui fosse omosessuale. Quindi pensi un po’, per non dispiacere alla madre che lo crede omosessuale, lui diventa omossessuale. Ma poi lui non lo è e all’occasione buona incontra una donna che gli fa capire dove tira il vento, il suo vento. Quindi, certo che si rincorrono moltissimo questi temi; ma perché – sa – sono temi che hanno un’ universalità. Chi non vorrebbe essere libero di essere? Poi forse a volte è difficile; a volto è impossibile; qualche volta dipende squisitamente da noi, da quanto siamo disposti a rischiarcela, da quanto siamo disposti a perdere per poi tornare a vincere. E in questo senso anche Pirandello ha una gran ragione d’essere. Quindi sa, le cose si rincorrono. Sono tutto e il contrario di tutto, non per banalizzare ma perché è proprio così; perché sono i temi della vita, dell’universalità.
Secondo me, ha molto a che fare con questo, con un senso dello stare al mondo con tutto quello che significa: dover rendere conto; dover non poter essere quello che si vorrebbe, come nel caso di Pirandello in “Così è (se vi pare)” essere soggetti ai pettegolezzi, ai rumors del mondo che ti circonda… e anche in Guillaume è così. Anche in questo, come potrebbe mai l’autorità ecclesiastica accettare che padre Geoffrey coniughi il verbo in un altro modo e forse quanti rumors ci sono intorno a lui! Eh, guardi, è molto interessante perché tutte queste cose sono lì una vicina all’altra; si fanno compagnia.
In un certo qual modo tutti e tre, affrontando temi così universali, non fanno che scandagliare la natura umana andando ad indagare al di sotto di quella stratificazione sociale piuttosto radicata nell’essere umano.
Assolutamente! É una necessità di stare al mondo, di sopravvivere. Per sopravvivere devi fare i conti con il mondo, altrimenti fai più fatica perchè se vuoi dire la tua a tutti i costi diventi scomodo. Bisogna saperci vivere nelle scomodità. É più facile uniformarsi. Diciamo che, questi tre – il signor Ponza, Guillaume, padre Geoffrey – non la vogliono vivere la consuetudine, preferiscono la scomodità. E quindi, anche il coraggio per essere, perchè poi per essere scomodi bisogna avere coraggio. E in questo, secondo me, queste figure si assomigliano.
Per concludere. Qualche anticipazione dei suoi futuri progetti teatrali?
La cerimonia del massaggio vive, nel senso che dopo questa settimana all’OFF/OFF Theatre (dal 21 al 26 gennaio); poi andremo a Nizza Monferrato (29 gennaio) ; poi a Trieste (18-19 febbraio); poi a Gradisca d’Isonzo (20-22 febbraio); poi a maggio a Torino e naturalmente stiamo lavorando per il futuro. E io ho in serbo questo travolgente monologo nuovo che ha scritto Massimo Sgorbani, che scrisse per me “Truman” e che poco prima di morire ha scritto quest’ultimo testo che è meraviglioso e che io farò prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e diretto da Serena Sinigaglia. Un altro grande obiettivo monologante.
Guardi, io devo dirle, che ho in serbo tutta una serie di cose per il futuro perché il lavoro in questi anni mi ha restituito tutto quello che io ho speso e quindi sono a bordo di tanto futuro, anche se il futuro è un’ipotesi – come canta molto bene Enrico Ruggeri – però diciamo che ci salgo su sui treni in questo momento e sa una cosa? Diventare vecchi a cosa serve? A non salire su tutti i treni; ma a scegliere di poter non salire su e dire ≪aspetto il prossimo≫ . É un privilegio della vecchiaia; un privilegio del diventare grandi o vecchi, che come diceva mia nonna sono la stessa cosa.
Si conclude, così, la nostra chiacchierata. Una conversazione, quella con Gianluca Ferrato, da cui emerge un profondo viaggio tra le pieghe della drammaturgia teatrale e della sua universalità attraverso tre travolgenti testi. Dai grandi classici ai monologhi contemporanei, il teatro si conferma per lui non solo un mestiere ma una vera e propria vocazione; un rituale personale e universale allo stesso tempo. E mentre ci saluta, con parole che sanno di passione autentica, ci lascia un messaggio potente: sul palco, come nella vita, il coraggio di essere se stessi è la più grande conquista.