Dal neorealismo di De Sica alla riscoperta di Totò, passando per la grande stagione della Rai: l’autore che ha raccontato il volto più autentico del nostro Paese
Giornalista, sceneggiatore, scrittore straordinario e soprattutto autore di numerosi programmi televisivi di grande impatto popolare per la Rai, Giancarlo Governi ha saputo raccontare l’Italia attraverso le sue icone più amate. La sua lunga carriera è costellata di successi editoriali e televisivi che ne fanno una figura centrale nella narrazione culturale del nostro Paese.
Autore di oltre cinquanta libri, Governi ha firmato biografie diventate veri e propri romanzi popolari: Nannarella, dedicato ad Anna Magnani, Totò. Vita, opere e miracoli, e Alberto Sordi. Storia di un italiano, da cui è stato tratto anche il film documentario Alberto Sordi, un italiano come noi.
Il suo ultimo lavoro, uscito lo scorso anno, è un omaggio intenso e sentito a Vittorio De Sica in occasione dei cinquant’anni dalla sua scomparsa: Quando il cinema era Vittorio De Sica. In questo volume, Governi restituisce un ritratto originale e appassionato del grande regista e attore, vincitore di quattro premi Oscar per Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Ieri, oggi e domani (1963) e Il giardino dei Finzi Contini(1972).
De Sica ricevette inoltre una nomination all’Oscar per Matrimonio all’italiana e, nel 1958, anche come miglior attore non protagonista per Addio alle armi. Tra gli altri riconoscimenti, la Palma d’oro a Cannes nel 1951 per Miracolo a Milano e l’Orso d’oro a Berlino nel 1971 per Il giardino dei Finzi Contini.
Con questo libro, Governi conferma la sua capacità di tratteggiare con profondità e sensibilità i grandi protagonisti del cinema e della cultura italiana, restituendo al pubblico non solo le loro opere, ma anche la loro umanità. Un omaggio sentito a uno dei padri del Neorealismo, insieme a Rossellini, amato in tutto il mondo.
Con questo libro sei riuscito a raccontare Vittorio De Sica in modo davvero straordinario. Cosa ti ha spinto a scriverlo e qual è l’aspetto della sua figura che ti ha colpito di più durante questo lavoro?
Vittorio De Sica è stato uno di quegli artisti che non hanno soltanto fatto la storia del cinema, ma anche la storia d’Italia. La sua opera ha segnato profondamente un’epoca, raccontando un momento cruciale – triste, tragico ma anche profondamente umano e, in un certo senso, glorioso – della nostra storia: il dopoguerra.
Con i suoi cinque capolavori neorealisti: “Sciuscià”, “Ladri di biciclette,” “Umberto D”., “Miracolo a Milano”, “Il giardino dei Finzi Contini” e “Il Ghetto” ambientato nel ghetto ebraico di Ferrara, De Sica ha dato vita a un linguaggio cinematografico nuovo, capace di emozionare e far riflettere. Quei film hanno fatto scuola: il Neorealismo è diventato un punto di riferimento mondiale, studiato e ammirato ovunque si ami e si faccia cinema.
Quando poi l’Italia cambiò volto con l’avvento del boom economico e il Neorealismo lasciò spazio a nuove narrazioni, De Sica non si fermò. Continuò a recitare ad altissimi livelli – anzi, realizzò più film dello stesso Alberto Sordi, arrivando a oltre 180 pellicole – e proseguì la sua carriera da regista con enorme successo, vincendo altri due premi Oscar per “Ieri, oggi e doman”i e “Il giardino dei Finzi Contini”.
Un artista più completo e rappresentativo di lui, capace di raccontare l’identità profonda dell’Italia, non c’è stato.
Proprio pochi giorni fa, Aldo Grasso sul Corriere della Sera ha scritto un articolo dal titolo emblematico: “Rivedere Arbore e soffrire per la volgarità della TV di oggi”, una vera e propria denuncia nei confronti di una televisione che, con poche eccezioni, appare oggi modesta, ripetitiva, spesso volgare e soprattutto priva di idee. Nessuno meglio di te ha vissuto quel periodo d’oro della televisione italiana: una TV popolare, sì, ma anche colta, elegante, ricca di contenuti e invenzioni.
Che cosa è cambiato secondo te? Dove si è persa quella qualità che sembrava essere parte del DNA del servizio pubblico? Tu che hai firmato tanti programmi indimenticabili, che oggi mancano profondamente alla televisione italiana, cosa pensi dell’attuale panorama televisivo?
Una volta c’erano solo i tre canali della Rai. Poi arrivarono i tre canali Mediaset di Berlusconi, che inventò la televisione commerciale, e successivamente una settima rete, Telemontecarlo, diventata poi La7.
Oggi? Siamo sommersi da centinaia, forse migliaia di canali. Il digitale ha moltiplicato all’infinito le possibilità. Un tempo si diceva che “le vie del cielo” erano finite; oggi, quelle vie sono infinite. E su queste frequenze si sono combattute vere e proprie battaglie politiche, anche drammatiche, tra chi voleva aprire il mercato ad altri soggetti e chi intendeva mantenerlo sotto il controllo della Rai.
Oggi, chiunque abbia le risorse economiche può mettere in piedi una televisione. Ma bisogna anche dire che una volta, quando si realizzava un programma, soprattutto in prima serata, su una rete ammiraglia come Raiuno, era come mettere un transatlantico nell’oceano: lo vedevano tutti, aveva un peso, una direzione, una forza. Adesso, è come mettere in mare una barchetta: si perde subito all’orizzonte. Non si parla più di spettatori, ma di share, percentuali aride e spesso poco significative. Un 7% o un 8% che non si sa bene a cosa corrisponda realmente. Ricordo che quando dirigevo la Fiction in Rai, alcuni programmi raggiungevano i 7 milioni di spettatori… e c’era chi storceva il naso: sembrava un mezzo fallimento, perché eravamo abituati ai 10 o 12 milioni. L’ultima puntata della prima Piovra fece 17 milioni di spettatori. Quanto una finale dei Mondiali di calcio. Oggi, se un programma arriva a 5 milioni… si stappa lo champagne.
È proprio così, ed è vero quello che dici, come è vero e prezioso il lavoro che stai portando avanti nel ricordare i grandi personaggi del nostro cinema.
A proposito, voglio raccontarti un episodio che mi è rimasto nel cuore. Poco prima che partisse per il paradiso, il mio caro amico Dino De Laurentiis, un gigante del cinema, probabilmente il più grande produttore italiano di sempre, che aveva costruito la sua fortuna a Hollywood – mi chiamò al telefono.
«Tonino» mi disse, «ho bisogno che mi trovi i numeri di Umberto Eco e Raffaele La Capria».
«Dottore, ma che sta combinando?» gli risposi, un po’ sorpreso. E lui, con tono riservato: «Senti, non dire niente a nessuno… sto pensando a un film su Totò. Voglio fare qualcosa di importante».
Pochi giorni fa è scomparso anche Goffredo Fofi, che tu conoscevi benissimo. Un intellettuale autentico, scrittore e critico di cinema tra i più autorevoli, a volte contestato ma profondamente rispettato.
Fofi portava dentro di sé l’eredità culturale e popolare di figure come Raffaele Viviani, Eduardo e Peppino De Filippo, e soprattutto Totò. Fu uno dei primi a sdoganare Totò da quella maschera comica apparentemente leggera, rivelandone la complessità: un personaggio profondamente umano, a metà tra il clown e il poeta della strada. Un simbolo della Napoli più autentica e, al tempo stesso, universale.
«Ti racconto bene come sono andate le cose, perché io sono un “totoista” della prima ora. Anzi, per essere precisi, sono un “totoista fifaarenista”. Proprio come i fascisti dicevano di essere “fascisti della prima ora” perché avevano fatto la marcia su Roma, io nel mio piccolo ho fatto la mia marcia su Fifa e Arena, il film con cui ho scoperto Totò. Da bambini, andavamo al cinema ogni volta che c’era un suo film. Entravamo alle due del pomeriggio e uscivamo alle otto di sera. E molti di noi sarebbero rimasti lì anche di più, se le mamme non fossero venute a prenderci con la forza. Alla terza proiezione sapevamo già il film a memoria. Ripetevamo in coro tutte le battute di Totò, come fosse un rito collettivo.»
«Come ha raccontato Peppino Tornatore in Nuovo Cinema Paradiso, era tutto vero. Quando uno spettatore entrava a metà proiezione e non capiva cosa stesse succedendo sullo schermo… ci pensavamo noi. Recitavamo il film in diretta, battuta per battuta. Era il nostro Totò, era il nostro teatro».
«Poi, nel 1967, Totò muore. E da lì comincia quasi un silenzio. Un oblio. Era come se non vedessero l’ora di dimenticarlo. Ma per fortuna, arrivò Goffredo Fofi, che scrisse Totò. L’uomo e la maschera. Un libro illuminante. Parlava della maschera comica di Totò, del suo straordinario equilibrio tra umanità e grottesco. Poco dopo, quel libro si arricchì della testimonianza di Franca Faldini, l’ultima compagna di Totò che raccontava invece l’uomo dietro la maschera».
«Quel libro diventò per me una sorta di Bibbia. E a quel punto io mi sentii in dovere di fare qualcosa. Mi presi la briga e anche la responsabilità di promuovere dentro la Rai un grande movimento per la riscoperta di Totò e della sua opera, che rischiavano davvero di essere dimenticati. Fu così che nacque Il pianeta Totò, un programma-monstre in 30 puntate. Un viaggio appassionato, costruito anche grazie agli insegnamenti di Goffredo Fofi, che restituì al pubblico la grandezza di Totò, non solo come comico, ma come figura centrale della cultura italiana del Novecento. ».
Grazie a Giancarlo Governi, un autore che ha saputo regalarci alcune delle pagine più memorabili della televisione italiana. I suoi programmi sempre costruiti con rigore giornalistico, ma allo stesso tempo con passione e intelligenza narrativa hanno contribuito a formare il gusto, la memoria e l’identità culturale di intere generazioni.
Governi ha raccontato l’Italia attraverso le sue figure simbolo, usando un linguaggio semplice, diretto e mai banale, capace di arrivare al cuore del pubblico senza rinunciare alla profondità. Il suo stile, sobrio ed elegante, unisce la sensibilità del narratore alla precisione del cronista, restituendo dignità e verità ai protagonisti della nostra storia artistica, culturale e sociale.
In un tempo in cui la televisione è spesso vittima della superficialità e del rumore, il lavoro di Governi rimane un punto di riferimento: un modello di racconto popolare, ma mai populista, colto ma mai elitario. La sua opera è un invito oggi più che mai a ritrovare il senso del racconto, il valore della memoria, e l’importanza di chi ha saputo costruire un patrimonio condiviso che appartiene a tutti.