L’universo dei sogni.

A pochi giorni dal debutto sulle scene di Spazio Diamante di “Quell’ultima parata”, scritto e diretto da Fabrizio Bancale, abbiamo esplorato l’universo immaginifico dei sogni insieme all’attrice Gaia Riposati.

Quell’ultima parata è la storia verosimile di Mario Seghesio (interpretato dall’esordiente Giuseppe Franchina), un giovane che – come molti nella storia – incarna l’ideale di chi vive per un sogno, per un amore totalizzante che si scontra però con la dura realtà della vita; della storia; dell’ascesa del fascismo; delle regole del gioco che cambiano dentro e fuori dal campo. Così, lo spettacolo di Fabrizio Bancale ci porta indietro nel tempo, in una Genova degli anni Venti e ci costringe a riflettere su quanto la distanza tra sogno e realtà sia ancora oggi un nodo spesso irrisolto. Una tematica che ha avuto le sue risonanze allora, tanto quanto oggi. Per comprendere meglio il cuore pulsante della pièce ne abbiamo parlato con l’attrice Gaia Riposati (qui, madre-Storia-Sonia).

La storia di Mario Seghesio è quella di un sogno che, scontrandosi con la realtà del suo tempo, perde progressivamente la sua aurea immaginifica. Nonostante il contesto storico pressappoco lontano, il divario tra sogno e realtà è un tema ancora attuale. Secondo te, è possibile colmare questo gap o resterà sempre una distanza incolmabile?

Credo sia una storia per niente lontana da noi e quindi le considerazioni che si possono fare per la storia di cui parliamo nello spettacolo sono sempre assolutamente più forti nella nostra attualità. Forse, il fatto di poter vedere a distanza questa storia, che si svolge più o meno cent’anni fa, ci permette di essere forse più lucidi; di vedere meglio i confini rispetto a quello che ci sta accadendo intorno e in cui siamo immersi. Però le considerazioni credo siano sempre valide, sia per le questioni proprio di quello che accade intorno a questo ragazzo (come hai visto, chiamiamo la storia verosimile di Mario Seghesio perché di fatto parte dalla storia vera di questo ragazzo e però il fatto vero principalmente è che lui sia esistito, volesse fare il calciatore fino a riuscirci e poi insomma l’epilogo. Ma tutto il resto, la costruzione del personaggio e dei personaggi che gli girano intorno, sono verosimili per l’appunto). Ma, venendo proprio al sogno e al confronto con la realtà: non penso che il sogno si stemperi nel confronto con la realtà, ma deve trovare forza ancora di più per rimanere un sogno; per rimanere passione senza dover essere per forza ad occhi chiusi. Puoi aprire gli occhi, guardare che cosa hai intorno e trovare dentro di te la forza per mantenere la purezza del sogno. E questo credo valesse all’epoca come oggi. E anche difendere la purezza del sogno…

Noi vediamo in questo frangente in parallelo la storia di questo ragazzo che vuole fare il calciatore, lo sogna e la storia di un paese che viene infiltrato da quelli che noi chiamiamo i pirati (quello che poi sarà il fascismo che sta nascendo e si sta affermando). E anche il calcio in quegli anni comincia a nascere ed è ancora un gioco che si gioca per passione, senza grandi interessi ed invece vediamo negli anni che entrano degli interessi economici fino a deformarlo. E questa cosa somiglia moltissimo a quello che accade oggi, in cui il calcio è sicuramente quello che le persone amano vedere in televisione o andando allo stadio; ma è anche quel business impressionante che c’è. Quindi ci fa vedere tutta questa dimensione in cui i sogni vanno sognati ad occhi aperti e difesi nella loro purezza, torno a sottolineare.

Mario, il protagonista di questa storia, costruisce il suo sogno calcistico attorno alla figura di Franz Calì, interpretato da Urbano Lione, un idolo per lui imprescindibile. Quanto il ruolo degli idoli può contribuire, paradossalmente, allo sgretolamento di un sogno? Se non esistessero – o non fossero mai esistiti – modelli da seguire, credi che ci sarebbero – o sarebbero stati – meno sogni infranti?

Questa è una grande domanda… Può darsi. Mi hai preso a caldo e mi interessa moltissimo questo su cui stai andando ad indagare. Mentre parlavi io pensavo proprio a “I Sepolcri” di Foscolo e al fatto che ci sia bisogno di avere dei modelli per ispirarsi. Proprio per ispirarsi però! Alla fine bisognerebbe avere la forza di prendere il lato simbolico, ideale di queste figure sapendo che poi sono umane e che poi avranno le loro debolezze, le loro vicissitudini di vita e non per questo si deve per forza mettere in discussione i valori che gli si attribuiscono e, anzi, i valori che queste figure ispirano. Non so, per me un simbolo poteva essere Che Guevara; però io sono una totale pacifista e non andrei mai a combattere. Ma, se penso ai valori che sono stati messi in gioco e per cui si è sentita l’esigenza di andare a combattere, allora quelli io li trovo importanti. Poi ognuno li persegue nel modo che ritiene più giusto. Per questo, scoprire che quella persona – e non il simbolo – aveva dei difetti, non mi turba perché so che sto chiedendo a questa figura di indicarmi i valori per cui vale la pena “combattere”. E così, penso sia anche per i ragazzi: ci può essere il calciatore, il cantante, l’attore di riferimento che è figo; che fa qualcosa che ti piace, che ti piacerebbe imitare. Poi se vedi quel che fa nella vita vera non sarà realmente così; dietro ci saranno delle impalcature. Ma quelle cose che ti sono piaciute possono rendere te una persona migliore. Per me, quindi, la chiave sta proprio nel lasciarsi ispirare, ma non voler imitare. Sai, se prima vedevamo l’idolo in maniera astratta e volevamo imitarlo – secondo me, sbagliando – era comunque altro da noi. Oggi, invece, quello che noi facciamo – anche con la nostra immagine attraverso i social – è crearci una specie di simulacro della nostra figura che non è più veramente noi e poi, rincorriamo addirittura quel noi così patinato, fatto di lustrini. Ma i nostri difetti sono importanti tanto quanto le cose che invece funzionano perché è proprio da quelli che noi impareremo, ci miglioreremo e perdere questa consapevolezza ci può far soffrire moltissimo, perché non saremo mai adeguati all’ideale assurdo e astratto e allo stesso tempo (perdere questa consapevolezza) non ci fa godere delle cose anche belle di essere persone vere.

Arrivando al tuo personaggio. Qui interpreti la madre di Mario Seghesio, una figura che potrebbe apparire marginale ma che in realtà osserva e partecipa silenziosamente al percorso del figlio. In che modo il tuo personaggio accompagna il sogno di Mario?

Lo spettacolo è molto complesso, anche se poi speriamo che per il pubblico sarà immediato entrare in quel gioco. Tu dici «il mio ruolo è quello della madre». Sì, ma in realtà avrai visto che io sono la Storia, la madre e Sonia che sembrano tre personaggi, ma nei fatti sono la stessa cosa. Quando interpreto la Storia che entra in scena e che ha il doppio compito di calarti nella situazione e farti capire che cosa sta succedendo, in che mondo sei e anche nell’entrare nelle storie e farti capire che la storia siamo noi – come diceva De Gregori; che la storia è fatta delle nostre azioni. E in questo è una Storia madre. Io non scindo i personaggi – ovviamente si percepisce quando la battuta appartiene ad una parte piuttosto che ad un’altra – ma concettualmente è la stessa cosa: questa Storia madre, che è le radici e che è lo stimolo ad imparare dall’esperienza, è anche la tenerezza di qualcuno che vede e in parte in modo impotente non riesce a salvarti dai pericoli che sono dietro l’angolo; ma te li presenta. E un po’ questo è anche il momento in cui è madre; una madre molto tenera che cerca di portarlo a capire che la vita non è solo tirare calci ad un pallone e però poi sa che non si devono spegnere i sogni. Le energie del sogno possono essere magari trasformate.

Questo ragazzo, se pensi, purtroppo muore molto giovane all’inizio del coronamento del suo sogno; ma a me piace pensare che c’è comunque una trasformazione e che questa trasformazione sarebbe andata avanti e l’avrebbe saputa portare avanti. Questa capacità di mettere la passione nel sogno fino a farlo diventare la realtà, credo sia un suo simbolo. Qui, è nel calcio, ma poi è quello che noi speriamo che le persone colgano: lavorare sui sogni, non spezzarli nell’incontro con la realtà; ma fortificarli nel farli entrare in relazione con la realtà. E in questo la madre suggerisce, accompagna e provoca a fare.

La terza parte del mio ruolo è proprio questa ragazza di cui lui si innamora e che porta una consapevolezza del sociale, del fatto che noi non subiamo necessariamente le cose; noi se le vediamo possiamo scegliere che cosa fare, in che modo attraversare la vita e cercare di farla somigliare a quello che riteniamo più giusto. E in questo si compie la Storia: c’è una Storia madre che è origine ed è qualcosa che ti nutre e allo stesso tempo c’è una Storia che ti mette di fronte la realtà e ti dice «tu sei quella storia e devi agire, devi essere quello che vuoi essere, devi scegliere». E in questo senso sento compiuto il mio personaggio fatto di personaggi.

Come abbiamo appena visto, oltre al ruolo materno vesti anche quello della Storia, divenendone voce e veicolo narrativo. Come queste due dimensioni dialogano? Credi che, estrapolando anche dalla pièce, esista un punto di incontro tra l’essere madre e il farsi portavoce della memoria collettiva?

La premessa è che io non lo sono, ma ti parlo del concetto che io sento molto. Tra l’altro, insegno sia recitazione che all’università processi cognitivi e quindi mi pongo il problema del che cosa vuol dire avere un patrimonio di conoscenze e vissuto e cercarlo di trasmetterlo. Che è, io credo, il ruolo di una madre che ti ha dato la vita; ma che deve far sì poi che la tua vita cresca non ingabbiandola in quella che l’esperienza della madre ha già fatto; ma offrendo l’esperienza perché il figlio possa trovare la propria libertà espressiva. L’idea che mi viene in mente è proprio quella del nutrimento: come si dà il cibo, il latte all’inizio; si danno le cose che si sono scoperte nella propria vita e, in questo caso, anche la storia. Ti dà quello che la storia del genere umano ha costruito, di cui bisognerebbe avere esperienza possibilmente per non ripetere gli stessi errori; però sapendo che quel “cibo” poi verrà digerito e metabolizzato da un essere che avrà la propria libertà di espressione e interpretazione. Quindi, c’è anche in questo una grande generosità: nel sapere di dare qualcosa, non perché sia la mia prosecuzione della mia vita di madre; ma perché sia l’inizio di altre vite.

Tornando alla dimensione del sogno che permea lo spettacolo, “Quell’ultima parata” racconta anche di chi è disposto a sacrificare tutto pur di difendere un sogno, un ideale. Credi che oggi questo impeto sia andato perso o che, al contrario, esistano ancora persone pronte a rischiare tutto, ma frenate da contingenze esterne?

Credo che il sogno – inteso non solo come divagazione, ma proprio come essere in contatto con quello che di più profondo abbiamo dentro di noi e quindi, un’aspirazione ad essere, a divenire – sia profondamente connaturata nell’essere uomo. Quindi, credo che ci sia anche oggi. Certamente oggi la società, da una parte, ha stemperato l’idea che i sogni possano essere grandi e possano essere quindi perseguiti e realizzati. A tanti giovanissimi vengono dati dei piccoli modelli oggi dalla società: credo che oggi sognare di essere ricco, di essere un calciatore (non perché la passione possa essere bellissima) è un piccolo sogno rispetto al sognare una società in cui le persone, ad esempio, possono avere gli stessi diritti; i grandi sogni di disegno di un mondo migliore in cui l’uomo non si esprima solo egoisticamente, ma proprio come parte di un tutto. Sono dati molto meno come modello, rispetto ad una volta; però esistono proprio perché sono connaturati nell’uomo. L’uomo ha delle grandi espressioni di questo. Penso, ad esempio, ad un fenomeno come quello di Greta Thunberg e tutti i ragazzi di Fridays for Future che, in un momento in cui sembrava non esserci più tensione sociale, hanno saputo trovare una propria capacità di trovare un modello, che non veniva dal passato ma che sentiva che il pianeta in fondo è una parte di noi e noi siamo una parte di lui e che valesse la pena di trovare nuovi modi per battersi per rispettarlo e quindi permetterne la vita, che è anche la nostra vita. Questo, per esempio, è una cosa che – come si direbbe oggi – non l’hanno vista arrivare e poi invece c’è.

Per certi versi il lockdown ha stemperato le attenzioni.. ci ha riportato a chiuderci ognuno dentro al proprio mondo e poi il mondo sta attraversando delle cose terribili in questo momento che sono scioccanti per chiunque abbia una coscienza. Riportare la guerra a essere considerata come metodo di risoluzione dei problemi è qualcosa che la nostra Costituzione nega e avversa, ma che ogni essere umano dovrebbe avversare. Dovremmo ragionare e costruire nuovi modi di interazione. Però lo vediamo nei fatti di tutti i giorni… Detto questo, penso, che ci siano ancora persone che sentono che, che sia il sogno di realizzazione personale o il sogno di qualcosa di più grande da costruire insieme, è qualcosa che rimarrà sempre connaturato nell’uomo e che cerca sempre nuove forme per venire fuori. Questo, credo sia un momento di grande dicotomia: da un lato c’è una forma di addormentamento, che non offre modelli su cui i ragazzi si possano basare per costruire il loro modo di lavorare sul sogno; ma loro troveranno comunque novi modi. In questo sono assolutamente fiduciosa; sono convinta che il sogno non si fermi.

Rimanendo in tema di sogni e per concludere. Qual è il tuo sogno per il mondo dell’arte e della cultura italiana – e non solo – in un momento storico così complesso?

Ho una serie di input di risposte in merito a questo, che è sicuramente un tema forte nella mia esistenza. Io sono una strana figura di attrice e artista: lavoro sia in teatro che nell’arte contemporanea. E dico questo, perché credo che una delle chiavi, oggi come sempre, sia quella di far incontrare linguaggi creativi e di far sì che vengano messi a disposizione in modo plastico, malleabile e trasformativo di chiunque voglia usarli per esprimersi. Intendo sia gli artisti che le persone, che non fanno gli artisti ma sono coloro per cui si fa arte e che la rendono viva fruendola e che devono sentirsi liberi di incontrarla e lasciarsi emozionare, ispirare, condizionare o anche solo far sì che l’arte aiuti a mettere a fuoco e a vedere meglio quello che accade.

Quindi, ancora una volta, è un continuo scambio tra sogno, tra qualche cosa di immaginifico, di sognante appunto, che però serve a rendere simbolico qualcosa di estremamente concreto. Quindi, credo che – ora più come mai; ma sempre – l’arte sia percepita come qualcosa di irrinunciabile e che può aiutare a vedere e ridisegnare le società. In questo l’Imagination au pouvoir – dicevano i surrealisti e poi è stata una parola d’ordine per il ‘68 che ha sbagliato sicuramente tante cose – era un dispositivo molto importante. Proprio oggi, credo che le persone che fanno arte in tutti i modi (dalla musica, al teatro, all’arte visiva e anche le arti digitali – di cui in parte mi occupo, a quelle che attingono al gaming…), che sembrano arti separate possano invece essere tutte messe a sistema per far capire che l’immaginazione è il grande segreto dell’essere umano.

Oggi si parla tanto di intelligenza artificiale, che è un tema spinoso, che può costituire un pericolo in tanti campi; però è anche una grande opportunità per l’uomo – intanto è creata dall’essere umano e quindi ancora una volta è una nostra possibilità di espansione – perché tra le cose ci mette di fronte al capire chi siamo noi e capire, invece, cos’è l’intelligenza naturale e su questo tornare a ragionare, a riverificare. E sicuramente, uno di questi aspetti del naturale è proprio questa capacità di immaginare; di spingere la riflessione, il sogno avanti in questa rincorsa continua al miglioramento, alla crescita, all’andare oltre. Questo è il mio sogno: che l’arte sia utile e percepita come necessaria e che non gli si chieda di essere materiale, ma che la si lasci essere immateriale perché così come l’aria possa nutrire tutti!

Giunti al termine di questa piacevole chiacchierata, Quell’ultima parata, si rivela quindi non solo un racconto di calcio e di ambizioni personali; ma una rappresentazione universale di ciò che accade quando la passione si scontra con le ingiustizie della storia. Lo spettacolo invita, pertanto, a interrogarsi sul valore dei sogni, sulla loro capacità di resilienza e di trasformazione. In questo, Gaia Riposati, ci ha guidati in un viaggio emotivo ricordandoci che, sebbene la realtà possa essere schiacciante, la forza di un sogno risiede nella sua capacità di adattarsi e di continuare a esistere oltre ogni barriera. Alla fine non è la Storia a definirci, ma siamo noi – con le nostre azioni – a fare la Storia.  

Interviste
Annagrazia Marchionni

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