Gabbie di ferro e litanie di dolore

Un coro di intelligenza, memoria e opposte ragioni che si dissolvono in rumore

Amos Gitai, classe 1950, è principalmente un uomo di cinema, regista di film e documentari, il cui approccio critico nei confronti di Israele ha costretto per decenni ad un esilio volontario in America ed Europa. Ora vive di nuovo in Israele, ma senza dismettere la sua scomodità indagatrice.

Roma, Teatro Argentina: “House” – GBOPERA
House

Il suo spettacolo teatrale, House – in anteprima al Romaeuropa Festival 2024 (teatro Argentina, 8-10 ottobre) – è dunque interessante, e ci interroga sul piano politico, ma la mano registica di Gitai risente forse della grammatica cinematografica, e ancor più di un certo didascalismo documentaristico, non tanto sul piano visivo e musicale, quanto su quello della struttura narrativo drammaturgica, troppo orizzontale, per quadri paralleli e giustapposti, che solo virtualmente diventano dialogo, scontro, incontro.

Una scelta anche, in parte, comunque, forse proprio per esprimere il senso di patetica e paritaria paralisi situazionale che da quasi un secolo affligge le contrapposte deliranti e anche umanissime ragioni di tutti, nel buco nero del conflitto mediorientale.

Che l’approccio rimanga documentaristico del resto è comprensibile, essendo lo spettacolo la trasposizione della trilogia documentaristica del regista   La Maison (1980), Une maison à Jérusalem (1997) e News from Home/News from House (2005).

Il presupposto comunque è una metafora densa di significati, essendo il dipanarsi della narrazione imperniato su un quarto di secolo della storia di una casa in Gerusalemme Ovest, con i cambi di inquilini e proprietari, sintesi di un succedersi di strati migratori e di potere, dalla fuga dei palestinesi nel 1948, agli operai palestinesi che ora ristrutturano ed ampliano in scena quei muri densi di memorie, e che sempre più sono simbolo dell’esproprio israeliano, da quello delle prime ondate, fino agli arrivi più recenti, e meno consapevoli della violenza originaria.

Si tratta dunque, attraverso la modulazione di racconti-memoria, di mostrare le ferite di un difficile abitare, la storia, ma prima di tutto lo spazio vitale.

Un abitare che fatica a diventare un coabitare e condividere, e dove la casa (house) mai sembra riuscire a diventare dimora (home).

Non c’è homeland (patria) per nessuno. Sradicati coloro che arrivano e sradicato chi c’era, per diverse violenze della storia, dove il dolore della memoria non riesce mai ad essere condivisione di una uguale diversità, chiudendosi nel solipsismo delle proprie ragioni.

La casa non è uno spazio, ma un groviglio di mura sassi impalcature.

La casa non è mai fatta né mai disfatta, ma in perenne mutazione.

Ed è questa l’immagine che struttura la scena (forse la cosa più riuscita, essendo l’immagine il regno del cinema), con efficacia anche teatrale, come macchineria simbolica.

I narratori rammemoranti che si succedono in scena, come i fotogrammi di un album di memorie (vivi e al contempo imbalsamati), lo fanno tra gruppi di pietre e scalpellini (gli operai palestinesi), mentre ai due lati giganteggiano impalcature metalliche, con scale, luogo di comparse e scomparse, e da cui ogni tanto arriva la musica dal vivo, a disegnare climax emotivi. Dal pizzicato del santur iraniano (una specie di arpa a percussione), al violino, a cori lirici stralunati. 

E se i parlanti sono come squarci in parallelo di punti di vista egualmente umani ed egualmente unilaterali, l’assenza di incontro dei loro discorsi è come una teoria di muri. Li possiamo vedere ora duri come le pietre, muri del silenzio; ora come muri trasparenti, nel cui acquario fioriscono anime in poesia. 

Ma in sostanza sono tutte gabbie di ferro, lager, crocefissioni.

Ed ecco quindi che (mentre la scena si reduplica sulla parete di fondo in gigantografie straniate e verticali) a tratti le impalcature vengono mosse a chiudere la scena, con un senso di soffocamento dell’immagine umana gigante alle spalle (e dunque simbolicamente dello spazio di discorso), in una selva di sbarre ortogonali e oblique. Ferro in avanscena, e ombre in proiezione.

E se la musica è evaporazione lirica delle molteplici illusioni d’anima, i tralicci metallici ribattuti dai martelli (e i martelli sulle pietre) diventano lo scatenamento tribale della violenza selvaggia del collettivo, alienato, sordo, conflittuale. Forse del delirio del capitale, tinto di false religioni, sacre, nazionali, domestiche, laiche, intimistiche.

Ciascuno ha le sue memorie che sono anche idiomi (in scena parlate 5 lingue, con sottotitoli proiettati) a rendere fisico il rumore della Babele. 

Ciascuno ha le sue ragioni.

Chi è figlio dei reduci della shoah, chi cerca in Israele nuova spiritualità. 

Chi, pur essendo sionista, e figlio della shoah, come il giovane artista belga, Kishka, non trova una vera identità. Chi è odio e resistenza, come l’operaio palestinese.

Muri e rumore ed isolamento.

Parlano sempre al pubblico, o nel vuoto, o a sé. 

Raramente tra loro. 

Apparentemente, i vecchi, a condividere album di foto, ma ciascuno col suo soliloquio.

Ed in mezzo le figure femminili, come fiori nell’acquario.

Fiori perché sono portatrici di sogno.

Claire, rossovestita come un fiore passionale, migrata in Svezia e poi in Israele, rimpiange e sogna la convivenza e tolleranza multiculturale della Istambul pre anni ’60.

E un’altra – biancovestita – sogna di trovare in Israele la purezza chassidica materna, e china a terra su un cumulo di calce (bianco su bianco) vi dipinge con morbide carezze onde di sogno, prima che svanita in piedi in luce abbagliante, arrivi un operaio palestinese a sgomberare il tutto con una pala.

Certo!

Perché per il palestinese cisgiordano, duramente sfruttato, quello non è un sogno neanche percepito, e comunque un falso, un fuoco di vento di un’anima sorda al suo dolore di sfruttato.

E così via, una bella teoria di effetti scenici e poesia visiva e sonora, in una troppo lunga e statica alternanza dei discorsi, che sarebbe compito politico dello spettatore ricomporre in ascolto, se non rischiasse di decedere per la faticosa stasi dell’ascolto.

Una petizione patetica alla responsabilità, e alla tragica consapevolezza di una contraddittorietà di ragioni difficile da comporre. Ma alla fine un po’ didascalica, come del resto spesso è l’arte politica. 

Tutti sembrano inconsapevoli ed innocenti, del resto, e spetta ad un discorso esterno quindi rompere brechtianamente la quarta parete, sbilanciandosi qui chiaramente dalla parte degli oppressi.

Con un bel effetto scenico infatti, a tre quarti della rappresentazione ( di ben due ore e mezzo!), improvvisamente cala un velo trasparente tra scena (la realtà) e pubblico (falsamente succube di ascolti unilaterali identificativi e assolutori), a distanziare con straniamento coscientizzante (verfremdungseffect) brechtiano.

Non sono proprio i cartelli brechtiani in scena, ma il senso, benché più poetico, è lo stesso. 

Sul velario sudario derealizzante è sovrimpressa in italiano ed inglese una paradigmatica interrogazione brechtiana

“Domande di un lettore operaio” – “Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? / Dentro i libri ci sono i nomi dei re / I re hanno trascinato quei blocchi di pietra? […] Anche nella favolosa Atlantide / nella notte che il mare li inghiottì, affogarono / implorando aiuto dai loro schiavi”

Morale? 

Non i potenti ma il popolo costruiscono il mondo. 

E quindi? 

Quindi anche Israele deve molto ai palestinesi.

E a sottolineare la forza dell’assunto, nel buio, esplode una frenesia di archi, ad accompagnare un coro lirico (il popolo dolente?).

House

E si potrebbe continuare. 

E succede. 

Per infinite evaporazioni poetiche.

E tutti bravi gli attori. Calibrati, intimi, vibranti, e talora i vecchi con le inflessioni da scafati caratteristi in arruffato borbottio.

Finchè sfinito il pubblico – senza una vera conclusione – naufraga in oceanico applauso.

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Housescritto e diretto da Amos Gitaï – con Bahira Ablassi, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Minas Qarawany, Atallah Tannous, Richard Wilberforce – Corealizzazione Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Romaeuropa Festival 2024 – Prima Nazionale – Roma, 8-10 ottobre 2024 Teatro Argentina