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François Truffaut, l’implacabile gentilezza del cinema

Dalle stroncature giovanili ai capolavori della Nouvelle Vague, dal ricordo di Rossellini alla Festa del Cinema di Roma: ritratto di un autore che ha insegnato a guardare la vita come un film, con lucidità, passione e tenerezza.

È stato il più grande regista francese della Nouvelle Vague, autore di film che hanno segnato la storia del cinema. Nel 1959 I 400 colpi gli valse la Palma d’Oro a Cannes, nel 1962 Jules et Jim divenne manifesto dell’amore libero e inquieto, mentre nel 1973 Effetto notte conquistò due Oscar e un Golden Globe, imponendosi come una delle opere più riuscite e amate della cinematografia mondiale. E ancora, nel 1980 L’ultimo metrò e nel 1981 La signora della porta accanto, straordinario ritratto della follia amorosa, trattata con eleganza e misura, lontana da ogni deriva melodrammatica.

Questa è solo una parte della prestigiosa filmografia di François Truffaut, genio del cinema scomparso prematuramente nel 1984, a soli 52 anni, a causa di un tumore al cervello.

Oggi a far parlare di lui è l’uscita del volume Il cinema secondo me, una raccolta di inedite critiche cinematografiche scritte negli anni Cinquanta a Parigi per la rivista Arts, prima che Truffaut diventasse il celebre regista che tutti conosciamo. A cura di Bernard Bastide e tradotto da Valeria Lucia Gili, il libro rivela un giovane Truffaut lucido, impietoso e provocatorio, capace di giudizi tanto brillanti quanto spietati.

Non risparmia neppure Federico Fellini e il suo film I vitelloni, accusato di «non avere pretese di intellettualismo»: “Sarebbe inutile cercare in questo film una rigorosa costruzione della sceneggiatura o un intreccio ben strutturato; gli autori non hanno avuto altre ambizioni se non farci sorridere. Questo film ci presenta, in qualche modo, gli sciuscià adulti di Vittorio De Sica. “I vitelloni” avrebbe potuto essere scritto dagli stessi vitelloni, tanta è l’indolenza e la vaghezza. Molti registi italiani sono a loro volta vitelloni e affrontano il cinema da principianti, dilettanti senza alcuna cura delle norme e delle regole.”

E le stoccate continuano anche verso Vittorio De Sica e il suo L’oro di Napoli, definito da Truffaut come “un film ispirato a un libro poco interessante di Giuseppe Marotta, dominato da una falsa psicologia, falsa crudezza, falsa comicità, falso pittoresco: il tutto sprigiona una noia travolgente, con una regia che è lo specchio del film — più ingegnosa che inventiva.” Un ritratto sorprendente del giovane Truffaut: esigente, visionario, ribelle, già pronto a demolire i miti per costruire il proprio linguaggio cinematografico.

Nel 1954 il giovane François Truffaut, ancora lontano dalla fama che lo avrebbe reso il simbolo della Nouvelle Vague, scriveva una critica tagliente sul film Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini: “Dopo svariati eventi il cui resoconto sarebbe troppo noioso, l’intreccio non ha assolutamente nessuna pretesa. L’obiettivo è far sorridere, ma la commedia non è un genere minore: sarebbe bastato andare un po’ oltre per realizzare una sorta di piccolo capolavoro.”

Una sintesi che già rivela la lucidità e la severità del futuro regista de I 400 colpi, capace di cogliere i limiti di un film pur nella leggerezza apparente del tono.

Ma le sue stroncature non si fermano qui. Nel 1955 Truffaut prende di mira Steno e il suo Cinema d’altri tempi, accusandolo addirittura di plagio: “Tante le fonti che hanno ispirato le pellicole italiane moderne; in questo caso è esplicita quella dal film americano di Gene Kelly “Cantando sotto la pioggia” e da” La carrozza d’oro” di Jean Renoir. In certe scene si potrebbe perfino parlare di plagio.”

Le sue recensioni spaccano in due la critica parigina: non tutti apprezzano la sua ferocia e la sua libertà di giudizio. Il giornalista Michel Audiard lo definisce ironicamente “il terrorista affossatore di film”, un’etichetta che Truffaut sembra indossare con orgoglio.

Dalla sua penna velenosa non scampa neppure il sei volte premio Oscar Billy Wilder, stroncato per Quando la moglie è in vacanza: “Wilder, vecchia volpe libidinosa, avanza a colpi di incessanti allusioni, al punto che dopo dieci minuti di film non si sa più bene quale sia il significato originale delle parole: culotte, sottosopra, frigorifero, colpo d’aria, sapone, profumo, Rachmaninov.”

Un Truffaut giovane ma già acuto, irriverente, implacabile, capace di leggere il cinema con l’occhio di chi presto ne avrebbe rivoluzionato le regole.

Non va meglio, oggi, per il cinema di Roberto Rossellini, maestro che fu il primo a intuire il talento di un giovanissimo François Truffaut e lo volle al suo fianco come aiuto in Stromboli. Di Viaggio in Italia il critico francese scrisse parole memorabili: “Una regia straordinaria che mostra anziché dimostrare, che indica anziché suggerire. Una regia diretta, incisiva, agile e lineare. Regista nervoso, Rossellini agisce sui nostri nervi e su quelli dei suoi interpreti. Un film che offre prospettive cinematografiche nuove e più ricche.”

Un tipo “fino”, Truffaut, ma anche un critico tagliente, che non le mandava certo a dire — e per fortuna, verrebbe da dire, fu poi rapito dalla macchina da presa, regalandoci un cinema di una delicatezza e di una verità ancora oggi ineguagliate.

Nel bel libro che raccoglie i suoi scritti ci sono tutti: da Hitchcock a Renoir, da Sergio Corbucci ad Alberto Lattuada, da William Wyler fino a Elia Kazan e King Vidor. Un elenco lungo, sorprendente e appassionato, che restituisce la misura di un uomo innamorato del cinema in ogni sua forma.

Ricordo quando, nel 1980, fu tra i primi — insieme a Robert De Niro — a visitare un piccolo paese della provincia di Salerno, Giffoni Valle Piana, incuriosito dal “miracolo” di un festival interamente dedicato ai ragazzi. Ne rimase profondamente colpito, tanto da scrivere una lettera all’ideatore, il giovane Claudio Gubitosi, che divenne il simbolo di quel festival oggi conosciuto in tutto il mondo: “Se non c’era, bisognava inventarlo.”

Chissà come avrebbe giudicato il cinema di oggi, in un mondo sempre più globalizzato e forse anche meno sognatore. Forse avrebbe cercato ancora quella verità fragile e luminosa che, per lui, era l’unico motivo per cui valesse la pena girare un film.

Alla Festa del Cinema di Roma appena conclusa, a imporsi è stato il cinema asiatico, con il trionfo di Taiwan grazie all’opera prima La ragazza mancina (Left-Handed Girl) di Snih Ching Tsou e con il premio per la miglior regia assegnato al cineasta cinese Wang Tong per il film Notti selvagge, bestie addomesticate.

L’Italia si distingue invece con il Gran Premio della Giuria a Jasmine Trinca, intensa protagonista del film Gli occhi degli altri di Andrea De Sica, liberamente ispirato al celebre delitto Casati Stampa, uno dei casi di cronaca nera più discussi dell’Italia degli anni Settanta.

“Il cinema è empatia”, diceva Roberto Rossellini ai suoi allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Chissà cosa avrebbe scritto François Truffaut sul nuovo cinema italiano, oggi attraversato da una pluralità di voci, stili e intenzioni. Più di cinquanta film in vetrina, che ci si augura il pubblico possa presto riscoprire anche in sala.

Intanto la presidente di giuria Paola Cortellesi, insieme ad attori e maestranze, ha partecipato a un sit-in di protesta contro i tagli ai fondi per il cinema previsti dalla legge di bilancio del governo Meloni. Una mobilitazione che risuona in sintonia con quella di Hollywood, dove gli attori hanno annunciato uno sciopero per ottenere tutele sui diritti d’immagine nell’era dell’intelligenza artificiale. «Il cinema – ha dichiarato la Cortellesi – va sostenuto perché crea cultura, pensiero critico e ricchezza».

Forse anche Truffaut, come molti della nostra generazione che amano profondamente la settima arte, avrebbe finito per rimpiangere quel cinema tanto criticato, ma che – nel bene e nel male – ha fatto la storia.

E nella marea di titoli di questa edizione “abulimica” di film, la frase più luminosa è arrivata dalla regista francese Pauline Loques, autrice del delicato Nino, storia vera di un ragazzo in lotta per sopravvivere a un tumore: «Tutti abbiamo più che mai bisogno di tenerezza. Alla fine, i bambini, gli amici e sì, anche il cinema, sono le tre cose per cui vale la pena vivere».

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