A voler proprio cercare e caparbiamente trovare qualcosa di positivo in questo periodo di pandemia e di vite sospese, allora propongo la quantità di film, concerti, rappresentazioni teatrali e trasmissioni televisive a nostra disposizione, quando vogliamo, nelle nostre case. Spettacoli pronti a riempire la nostra curiosità intellettuale e le ore di svago fin troppo vuote di questo inverno di lockdown.
Una di queste occasioni ci è data da RaiPlay, che offre una retrospettiva su tutti i film di François Truffaut, dandoci l’occasione per ripercorrere la vita e la carriera di uno dei protagonisti della cinematografia mondiale.
Nato a Parigi nel 1932 da una madre giovanissima rimasta incinta per errore, passa i primi anni di vita con la nonna in campagna, mentre la madre sposa nel 1933 Roland Truffaut che lo riconosce come suo figlio.
François è un bambino difficile, che non ama la scuola ma apprende l’amore per la lettura proprio dall’adorata nonna. Non finirà mai il liceo e, complice anche la guerra, comincerà a fare una serie di lavori disparati, fino all’incontro con André Bazin che indirizza la sua passione e la sua cultura verso il cinema, tanto da assumerlo come critico cinematografico presso i nascenti “Cahiers du cinéma”.
Questa amicizia con Bazin segna profondamente Truffaut, il suo destino e anche quello del cinema di tutto il mondo.
È infatti del 1954 l’esordio col cortometraggio “Une visite”, ma il grande grande successo giunge nel 1959 con “i 400 colpi”, film che segna l’inizio del suo successo come regista e apre la strada al movimento della Nouvelle Vague. A partire da questo momento, infatti, un gruppo di registi che si erano formati alla scuola critica dei Cahier du cinéma cominciarono ad essere raggruppati sotto questa etichetta e i loro nomi, le loro opere, hanno cambiato per sempre la storia del cinema: Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Jacques Rivette e molti altri.
È lo stesso Truffaut a darne una definizione precisa, dimostrando di ben conoscere le critiche dei detrattori del movimento quando, nel dicembre del 1962, scrive: “Non si è ancora sottolineato a sufficienza questo punto; la Nouvelle Vague non è né un movimento né un gruppo, ma un concetto di quantità. È una denominazione collettiva inventata dalla stampa per indicare i nomi dei cinquanta nuovi registi emersi in soli due anni in un campo professionale in cui in precedenza non si accettavano più di tre o quattro nuovi nomi all’anno” (Cahiers du cinéma- dicembre 1962- 138).
La storia dei film di Truffaut coinciderà, dagli anni 60 in poi, con la storia del cinema francese e le sue pellicole avranno un’influenza imprescindibile sui registi mondiali. Bastano i titoli per farci ancora sognare, e per ricordare che stiamo parlando di capolavori che hanno segnato un’epoca e fatto scuola: “Jules et Jim“ (1961), “L’Amore a vent’anni” (1962), “La calda amante” (1964), “Fahrenheit 451 “(1966), “Baci rubati” (1968), inizia il maggio francese e Truffaut si impegna in attività politiche che lo porteranno a dividersi dagli altri registi della Nouvelle Vague.
Tuttavia il suo modo di tratteggiare i sentimenti lo renderà unico e indimenticabile, regalandoci personaggi, scene, attori e attrici legati per sempre, nel nostro immaginario, al romanticismo e al ritratto delle passioni, fulcro dei suoi film. È il caso di Catherine Deneuve, Fanny Ardant o Gèrard Depardieu. Impossibile dimenticare alcuni capolavori come “La signora della porta accanto”(1981) o “Finalmente domenica” (1983) con una Fanny Ardant che illumina lo schermo e incanta con la sua figura, mentre cammina agile nelle strade di Parigi o spia dalla finestra della casa di campagna la vita di Gèrard Depardieu, suo vicino ed ex amante. È un polo d’attrazione inevitabile, musa nell’arte ma anche nella vita del regista.
Ma in questi tempi di chiusura di cinema e teatri, il film che più colpisce al cuore con i sentimenti della nostalgia, della malinconia e del rimpianto è “L’ultimo metro” (1980), con la ricostruzione dell’ambiente teatrale e della vita al suo interno. L’aveva già fatto con “Effetto notte” nel 1973, descrivendo l’ambiente del cinema.
“L’ultimo metro”, ambientato in una Parigi occupata dai tedeschi, fredda e piovosa, ha quella patina di resistenza che non può che farci ricordare le difficoltà che stiamo affrontando. In quella Parigi, l’unico posto sicuro, caldo e consolatorio è proprio il teatro, e i parigini vi si rifugiano caparbi, per sfuggire ai tempi bui che sono costretti a vivere. L’ultimo metro è proprio quello che li riporta a casa dopo la fine dello spettacolo e prima del coprifuoco.
Nella ricostruzione della vita del teatro c’è tutto il senso della vita vera, con una splendida, algida ma non per questo fredda ed immune dalle passioni, Catherine Deneuve, che nasconde il marito ebreo e proprietario del teatro negli scantinati, mentre deve combattere la sua privata battaglia con il sentimento che prova verso un giovane Gérard Depardieu.
Il teatro (così come il cinema) è quindi salvifico, l’umanità vi si ritrova per far fronte alle difficoltà, per condividerle in uno spazio protetto, per resistere, perché, come ben sapevano già i greci, non esiste sentimento, tragedia od orrore che non possa essere esorcizzato dalla messa in scena e dalla condivisione.
È un lavoro interessante quello di rivedere i capolavori del cinema, così come quelli della letteratura, alla luce di quanto stiamo vivendo, per cercare di trovare degli spunti di riflessione, per stilare le nostre personali classifiche di cosa sia essenziale e cosa no. La cultura, il teatro, il cinema e la condivisione di tutti questi aspetti si confermano, in tutte le epoche, centrali per la sopravvivenza umana, insieme ai sentimenti che ci tengono legati l’uno all’altro. Senza tutte queste cose la vita perde molto del suo significato.