“Orestea suite” – Archeologia del futuro tra mito e contemporaneità. Intervista al regista Daniele Salvo
Al Mythos, Festival celebrativo delle narrazioni mitiche capitanato da Luigi Tabita nell’entroterra siciliano troinese, giunto alla sua quinta edizione, è prossima all’esordio nazionale Orestea suite, un’opera di riscoperta del mito, investigato e setacciato, sondato ed analizzato con gli occhi della contemporaneità. Un’opera pluritematica e compositiva, visiva ed emotiva, trascendente nella sua oralità e coralità. Un’opera che, nell’era dello stordimento digitale e della regressione collettiva, si avvale della riappropriazione ellenica per parlare in fondo di ritorsioni e rivalse, regolamenti di conti, crimini e delitti da espiare nella rettitudine e nel discernimento salvifico. Traslata da Walter Lapini, ha come sfondo l’epicità poetica e drammatica di Eschilo (525 a.C – 456 a.C), il primo di quella celebre triade tragica di fascinatori del teatro composta anche da Sofocle (496 a.C – 406 a.C) ed Euripide (485 a.C – 406 a.C). In una continuità storica, al timone di un intreccio senza tempo, comunicativo ed evocativo del mondo ellenico, c’è lui, uno degli artisti più carismatici della scena contemporanea: Daniele Salvo (classe 1970). E protagonisti di questo arrangiamento drammaturgico concretato e trasferito agli albori del Terzo Millennio ‘occidentale’ e contrassegnato Salvo sono le giovani promesse accademiche addottrinate presso l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA), realtà didattica siracusana di spicco in ambito teatrale. Una squadra di 23 ragazzi e la “cattedra” del palcoscenico pronta ad accoglierli. Noi abbiamo intervistato il caposquadra, il regista Salvo, coordinatore di questa dimensione mitologica “targata ventunesimo secolo”.
Comincerei dalla parola “suite” che compone il titolo del suo spettacolo. In che modo possiamo intenderla? Come un appartamento universale e metaforico in cui trova posto, in un orizzonte attuale, la prosecuzione, il prolungamento della grecità? Ci dica lei di più.
Si, questo è un po’ il senso, quello di un “edificio metafisico” fuori dal tempo. Io parlo sempre di “archeologia del futuro” e, a questo proposito, mi viene in mente il monolite di 2001: Odissea nello spazio (1968, Stanley Kubrick), proprio perché la tragedia in fondo è, a mio avviso, la forma di spettacolo più contemporanea che ci sia e, in quanto tale, non ha bisogno di essere attualizzata. Credo che sia un errore decontestualizzare la tragedia, o modernizzarla. E ciò non vuol dire che bisogna fare gli spettacoli necessariamente con i pepli e le musiche del tempo, ma che invece bisogna cercare di trovare il rapporto con la contemporaneità, rispettando assolutamente il testo e facendosi guidare da quest’ultimo. Il regista per me, il regista quello vero è l’autore. I classici sono autori pazzeschi che hanno previsto tutto e il regista, secondo me, ha soprattutto la funzione di un archeologo che deve indagare le tracce, per ricostruire le intenzioni dell’autore stesso, il momento in cui egli ha scritto una determinata parola, l’istante in cui l’autore ha alzato la testa dal manoscritto e ha scelto di scrivere quella parola. E allora, indagando i meccanismi compositivi si possono trovare delle straordinarie assonanze con la contemporaneità, proprio perché le tragedie parlano di noi.
Da allievo di Luca Ronconi, ricordiamo che anche quest’ultimo ha trascinato sul palcoscenico la nota trama eschilea, in un tentativo riuscitissimo che risale ormai a ben 53 anni fa (1972). In quali aspetti la sua visione e la sua scrittura drammaturgiche possono conversare con quelle del suo maestro (Ronconi)?
Ronconi mi ha lasciato l’eredità di saper leggere i testi, di decodificarli e di far sì che essi parlino e guidino la messinscena, senza sovrapporvi un’arbitrarietà, senza mettere in scena solo ed esclusivamente il mondo del regista ma cercando, come sosteneva Giorgio Albertazzi (1923-2016), il “dialogo con i morti” cioè gli autori, una connessione con loro e con il loro mondo. Luca (Ronconi) fece un’operazione molto particolare, consegnando agli attori un testo di 400 pagine, su ciascuna delle quali c’era scritta una frase. “Ogni frase è inconoscibile”, diceva. La tragedia greca è, quindi, inconoscibile, laddove non sappiamo come si pronunciava il greco antico (seppure possediamo la pronuncia scolastica erasmiana), non sappiamo come si cantava e si recitava il libretto di un’opera senza la musica. Pertanto, quello che mettiamo in scena, diceva Luca, è proprio il clichè, il clichè sedimentato in tutte le messinscene, da quelle seicentesche a quelle novecentesche. Da qui nasce tutta la teoria “ronconiana” del recitare il significante. Ecco io credo, invece, che oggi si possa trovare una via più emotiva alla tragedia, una via in cui la connessione tra significante e significato con lo spettatore contemporaneo coincide proprio con quest’idea di emotività che deve raggiungere tutti, se con “tutti” intendiamo un pubblico eterogeneo, proprio come quello della tragedia, un pubblico composto da specialisti, turisti, persone che si trovano lì casualmente, persone che non sanno niente della tragedia antica e, così, riportare in vita, come diceva Carmelo Bene (1937-2002), “il morto”, riportare in vita il testo.
Oltre il già citato Ronconi, quali altri eventuali influssi si possono rintracciare nella genesi esplorativa e nella progettazione di Orestea? E quali i contrassegni stilistici e linguistici?
Io faccio sempre molto riferimento al cinema, in particolare a Ingmar Bergman (1918-2007), Stanley Kubrick (1928-1999) e Andrej Tarkovskij (1932-1986). Sono loro i miei tre riferimenti “principe”, sentinelle del mondo poetico, grandi maestri tanto per gli aspetti stilistici, quanto per l’idea stessa di teatro e la sua funzione. Tarkovskij, ad esempio, diceva una cosa che mi sta molto a cuore, cioè che “l’arte serve a perfezionare lo spirito umano”. Quindi, se l’arte in qualche modo è miglioramento dell’uomo, a questo dovrebbe tendere. Mentre oggi, invece, ci fanno pensare che l’arte è commercio, è un prodotto. E poi in Orestea ovviamente c’è l’influenza di Ronconi, avendo lavorato tanti anni con lui. Del resto, nel mondo di noi artisti, tutti gli incontri che facciamo sono importanti, anche quelli recenti. Tutte le esperienze condotte confluiscono nel nostro lavoro, nelle nostre messinscene, anche le cose che abbiamo visto. Penso, per esempio, a degli spettacoli straordinari di Yukio Ninagawa (1935-2016), che ho amato tanto, che ho frequentato tanto visivamente e a cui mi rifaccio spesso nel mio teatro.
Il riguardoso omaggio al tragediografo e la generale complessità di questa operazione drammaturgica, come hanno impattato sulla “gestazione temporale” di quest’ultima?
Sicuramente è stata una grande sfida per i ragazzi, anche perché si tratta di giovani attori. Alzare l’asticella e fare raggiungere delle temperature emotive alte e determinati stati è un lavoro in genere molto raffinato, che richiede tantissimo lavoro sulla parola, sull’intenzione, sulla sensazione, sul ritmo, sulla gestione del corpo e così via. Inoltre, ha richiesto un tempo di almeno tre mesi sul testo, proprio perché è un testo complicato, come altrettanto complicato è stato raggiungere la forma definitiva che è di circa due ore, sebbene naturalmente Orestea vorrebbe dei tempi molto più lunghi, fino a 4/5 ore.
E inoltre, l’osservanza scrupolosa del testo tragico di riferimento ha costituito un ostacolo al suo estro creativo? Come ha gestito l’autonomia artistica senza correre il rischio di capovolgere l’apparato strutturale, simbolico ed espressivo, dell’opera di Eschilo?
No, diciamo che per me è il contrario, proprio perché, come dicevo prima, io sono abituato a farmi guidare dal testo, a fare un’esegesi testuale, a partire dalla quale percorrere tutti i passaggi per rendere le immagini che Eschilo ha appunto pensato. Quindi è per me un potenziamento, non un ostacolo. Perché i tragici sono come esattamente William Shakespeare (1564-1616): se si sbaglia un passaggio o si imbocca una via sbagliata, poi i conti nella messinscena non tornano. Il castello di carte crolla. Quindi, c’era l’obbligo di fare certi passaggi e certi passi per comunicare le intenzioni e i nuclei tematici che Eschilo voleva mettere in luce. Per cui, come dicevo prima, bisogna stare molto attenti all’interno di una messinscena a non contraddirsi, a non contraddire il testo e a non andare contro le intenzioni dell’autore e perfino a non piegare l’autore alle intenzioni del regista, oppure ancora peggio, ad usare il testo come pretesto per mettere in scena altre cose legate al mondo del regista, che io trovo meno interessante. Perché è più interessante il mondo di Eschilo rispetto al mio.
Un‘ultima domanda. La sua futura operazione registica sarà ancora una volta votata al recupero classicistico e da esso ispirata oppure intenderà solcare nuovi territori?
Adesso sono appena stato al Festival Internazionale del Teatro Antico di Cipro con Le Baccanti. Riprenderemo Il ratto di Proserpina nei Teatri di Pietra siciliani e la Medea di Lucio Anneo Seneca (4 a.C – 65). Quindi per il momento sono concentrato su questo, a cui seguirà subito dopo una messinscena di Sogno d’una notte di mezza estate di Shakespeare al Teatro Quirino di Roma. Il mio interesse è molto focalizzato sui classici, ma non escludo anche altre cose di natura completamente diversa.
______________________
Orestea suite da Eschilo – traduzione Walter Lapini – Regia: Daniele Salvo – con: Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Giovanni Costamagna, Alessandra Cosentino, Cristian D’Agostino, Lorenzo Ficara, Ludovica Garofani, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Marco Maggio, Arianna Martinelli, Carlo Marrubini Boulan, Giuseppe Oricchio, Carloandrea Pecori Donizetti, Beatrice Ronga, Massimiliano Serino, Davide Sgamma, Francesca Sparacino, Stefano Stagno, Giovanni Taddeucci, Siria Veronese Sandre – Costumi: Marcella Salvo – Sartoria INDA Fondazione – Scene: Scenotecnica INDA Fondazione – Collaborazione ai movimenti: Jacqueline Boulnès – Acting coach: Melania Giglio – Produzione: INDA – Mythos Troina Festival – Anfiteatro della Radura – venerdì 25 luglio 2025