“Fiori per Torgeir” – Intervista con Roberta Carreri e Stefano Di Buduo

Non tutti i luoghi rispecchiano l’ambiente che li ospita. Si potrebbe pensare che la Danimarca, specialmente quella più provinciale al centro della penisola, sia solamente una landa brulla spazzata dal vento, dove il freddo si impossessa di tutte le cose e l’inverno passa lentamente coprendo tutto con uno strato di candida neve. Eppure, nel nord-ovest del Midtjylland, a Holstebro, c’è un cuore multicolore pulsante ancora attivo, il Nordisk Teaterlaboratorium che ospita l’Odin Teatret. Sul lungo muro del foyer che accoglie gli ospiti sono raccolti tutti i poster e le fotografie degli spettacoli d’ensemble di questo storico gruppo, partendo da Ornitofilene per arrivare all’ultima rappresentazione creata, Tebe al tempo della febbre gialla. Un viaggio in immagini che parte dal 1968 e arriva al 2022. Ma, in questa occasione, l’attenzione vuole ricadere su una performance solista e, per gli standard adottati dal gruppo diretto da Eugenio Barba, anomala: Fiori per Torgeir è il lavoro più recente interpretato e creato interamente da Roberta Carreri, storica attrice del gruppo, insieme a Stefano di Buduo, artista attivo nel capo delle arti digitali e di stanza in Germania, principalmente a Berlino. Proprio per questo suo carattere trasversalmente innovativo per l’utilizzo dei media digitali, la messinscena ha una presa particolare e si ha voglia di saperne di più. Si hanno tante domande: come si affronta il tema del lutto personale e come si possa creare un ambiente digitale interattivo, ma non solo.


Che origine ha questo spettacolo?
Roberta: Questa performance nasce da una mia necessità intima e profonda. Dopo la morte di Torgeir Wethal, mio marito per ventotto anni e membro fondatore dell’Odin Teatret insieme a Eugenio [Barba], ho vissuto a lungo nel lutto della sua perdita. Torgeir è morto per un tumore ai polmoni nel giugno 2010; fino a un mese prima aveva continuato a lavorare con noi allo spettacolo d’ensemble La vita cronica. Durante l’estate del 2017, in un periodo splendido e luminoso, tutto era in movimento, eppure io non mi sentivo bene. Al mio risveglio, una mattina, improvvisamente capii: dovevo fare uno spettacolo su Torgeir, per Torgeir, con Torgeir. Desideravo che Torgeir non venisse dimenticato e che fosse assieme con me ancora sulla scena.

E la vostra collaborazione?
R: Quando decisi che avrei realizzato questo lavoro, mi sono rivolta a Eugenio, che però mi rispose di non potermi aiutare. Stefano, che conosco da sempre e di cui seguivo i lavori, mi è venuto subito in mente perché aveva allestito un’installazione artistica per i cinquant’anni dell’Odin Teatret, qui nella sala bianca. Mi colpì come facesse prendere vita con il movimento alle immagini dei personaggi di tutti i nostri spettacoli insieme alla scelta delle musiche su cui si animavano e alle parole di Eugenio che apparivano e si dissolvevano sulle pareti. Un’esperienza molto commovente. Ho pensato subito che Stefano sarebbe stata l’unica persona in grado di portare Torgeir in scena con me.

Stefano: Io sono legato all’Odin perché il gruppo fondato da mio padre è un’“isola fluttuante” figlia di questo teatro e, da studente di scenografia, sono stato allievo di Luca Ruzza, già scenografo per alcuni lavori dell’Odin. Quindi ne conosco i membri sin da bambino; conoscevo bene Torgeir. Quando pubblicavo online le immagini dei miei lavori, Roberta mi scriveva sempre messaggi molto calorosi; da lì mi ha domandato se volessi collaborare con lei. All’inizio ero insicuro perché provo un grande rispetto per lei e l’Odin: da una parte era un sogno ma dall’altra poteva essere un compito difficile per via dell’enorme stima che provavo nei suoi confronti. Parlai anche con Eugenio che mi disse di non fermarmi e di lavorarci sopra.

Come avete lavorato alla realizzazione di questa performance?
R: La creazione ha richiesto tre anni e non è stato facile trovare i momenti in cui incontrarci. Stefano lavora molto con diversi teatri in Germania e in Italia. Allo stesso tempo io dovevo continuare con le tournée dell’Odin e partecipare alle attività del gruppo a Holstebro. Con Stefano abbiamo avuto cinque incontri per poterci confrontare e lavorare insieme: alcune sessioni duravano pochi giorni, altre dieci. Con lui ci alternavamo: io componevo danze e sequenze di azioni sulla base delle musiche e lui vi inseriva le immagini. Poi io alteravo le mie azioni in relazione alle animazioni delle immagini. Le musiche erano la trama su cui tassavamo. Grazie alla collaborazione con Stefano ho potuto sperimentare in una direzione diversa dal solito. Avevo voglia di collaborare con artisti giovani che potevano portare punti di vista ed esperienze diverse rispetto a quelle che avevo sperimentato insieme all’Odin. Ho anche parlato con mia figlia Alice, che è musicista e compositrice; le ho chiesto di realizzare tre pezzi, che non dovevano essere tristi. Mi ha accontentata, e le sue musiche mi accompagnano ora nello spettacolo.

S: Abbiamo cominciato la creazione senza sapere come lavorava l’altro, senza sapere come poteva funzionare. Ci siamo buttati sapendo che ci univa un forte affetto. Roberta ha detto: “Iniziamo a provare; buttiamo giù delle belle idee poi le facciamo vedere a Eugenio. Se va bene, se ne innamora e interviene facendo la regia”. Solo che lui non è mai venuto a vederci provare. Questa situazione alla Aspettando Godot ci ha motivato ad andare avanti. Solo che lui non è mai venuto a vederci provare. Diciamo dunque che Eugienio ci ha stimolati con la sua assenza. Anche se ci vedevamo in brevi sessioni il lavoro era inteso e proseguiva poi quando non eravamo insieme perché ci davamo dei compiti. Si aveva il tempo di fare sedimentare le cose e di riflettere. I tempi, per lo standard dell’Odin, sono stati però molto ristretti.

La scelta delle immagini, dei video utilizzati e della scenografia è molto interessante. Come è nata questa interazione uomo/video?
R: Ho voluto celebrare Torgeir come attore, per questo le immagini che ho scelto sono tutte immagini di scena; non sarei stata in grado di parlare del nostro intimo e del privato. Volevo e voglio che il suo lavoro nel Teatro non si perda. Ma come fare? Subito pensai di scegliere in ordine cronologico presentando alcune immagini e video; Torgeir ha iniziato a recitare fin da bambino. Mi resi conto velocemente che in questo modo avrei realizzato un documentario e non era quella la mia intenzione. Allora ho optato per una scelta diversa: mostrare l’Attore nella sua totalità grazie a piccoli estratti che potessero riproporre la complessità della sua carriera. Il Sogno di Andersen, la porta di Kaosmos, il suo personaggio strepitoso in Mythos, il training nel 1968, una performance in Sud Italia anni dopo dove si vedono chiaramente i movimenti del training; Il Milione; una dimostrazione di lavoro per spiegare il suo metodo di creazione. Intrecciando tutto questo con suoi pensieri e le sue riflessioni, che conservava in ordine sparso. Volevo riportarlo ancora come me sul palco in una performance non segnata dal patetismo. Quando entro in scena mi sento abbracciata dal telo su cui si proiettano le sue immagini e le sue parole, abbracciata da lui.

S: Come scenografo, sono partito dalle nostre necessità: la scelta del proiettore per le immagini e di una superficie adatta per la proiezione e l’interazione ma anche pratica per il trasporto in tournée. Mi piace il tulle ma ho optato per la tripolina che è composta di una superficie semitrasparente attraverso cui si può guardare e richiede meno attenzione quando viene piegata. I fili ricavati in questo materiale funzionano perfettamente con la luce, la raccolgono bene. La forma semicircolare della tenda ha più motivazioni: abbraccia il performer e il pubblico; insieme alle luci crea un “non-luogo” dove Roberta può entrare da tutti gli angoli e sembrare sospesa; è esteticamente bella e dona profondità. In un solo come questo, si crea una drammaturgia che genera un’interattività tra l’attore e il supporto. Secondo me, questa interazione attore-scenografia funziona sempre: se lei può creare un’immagine terza fra la scenografia e con essa, allora si può ottenere anche un nuovo luogo. Lo stesso vale per la proiezione: il video è uno spazio e se diventa un partner a tutti gli effetti, allora è una soluzione vincente. A me interessa che il video abbia un ruolo organico, che crei un’illusione immersiva per il pubblico senza offrire un’immagine realistica: rielaboro le immagini per creare visioni astratte e avere idee metaforiche che suggeriscano un contesto.

Come mai la scelta dei fiori come tema principale?
R: In effetti è stato Eugenio a darmi lo spunto quando gli dissi che avevo il bisogno di fare uno spettacolo su Torgeir e mi rispose di non potermi aiutare; gli replicai che non sapevo da dove cominciare. Mi disse: “Cosa fai quando muore una persona? Vai al cimitero e gli porti dei fiori”. “Ma io al cimitero ci vado quattro volte all’anno”, gli ho riposto. “Beh, parti da quelle quattro volte.”. E così l’idea di usare tanti fiori inizia da qui; entro in scena quattro volte portandone un tipo diverso in ogni circostanza: i girasoli, che emanano una luce intesa; le ortensie perché mi piacciono e sono belle a vedersi; le rose, che sono il simbolo dell’amore ma hanno anche le spine e che nello spettacolo lancio a Torgeir quando gli grido di essersene andato; e la lavanda, nel copricapo che indosso, perché calma lo spirito. Ci sono più motivi. Tutte le immagini di Torgeir sono in bianco e nero, il mio costume è nero, solo in un momento indosso un vestito rosso, i fiori invece sono di tutti i colori.

Il pubblico come reagisce a un argomento come questo?
R: Questo spettacolo tratta di un tema universale in cui tutti si possono ritrovare. È un tema difficile perché ognuno gestisce e affronta il lutto a modo suo e non c’è un’unica via per superare il momento di difficoltà. In realtà il lutto non si supera e non passa veramente mai. Bisogna imparare a conviverci, perché è il risultato che qualcosa che è accaduto: c’è stato qualcuno che abbiamo amato e che ci ha amati. E ora non c’è più. Con il tempo Mi sono accorta che, però, caricare gli spettatori di un’emozione così intesa e forte come accade nello spettacolo, poteva metterli in difficoltà. Ho iniziato, allora, a fare un breve incontro con gli spettatori subito dopo lo spettacolo, in cui mi siedo con loro e mi metto a loro disposizione: alcuni domandano, altri parlano di cosa li ha colpiti, di cosa li ha toccati. Alcuni ringraziano solamente. È un momento necessario che faccio con grande piacere.

S: Il fatto che Roberta abbia inserito questa parte è molto positivo, a mio parere: fermarsi e avere un momento artista-pubblico nasce dall’esigenza di parlare di quanto si è visto e se uno spettacolo muove lo spettatore a porsi delle domande, vuol dire che ha funzionato bene.

Quali sono i vostri progetti futuri?
S: Io ho appena terminato un allestimento a Berlino, ma ho altri progetti in corso d’opera. Tra qualche tempo seguirò questa performance per una serie di date in Grecia. Non vedo l’ora.

R: Io continuerò a lavorare qui al Nordisk Teaterlaboratorium, in fondo è casa. Il progetto principale è quello di presentare il più possibile Fiori per Torgeir in Danimarca e all’estero e fare seminari per i ragazzi che vengono da tutto il mondo. Continuerò il mio percorso ma a un ritmo più lento, come è giusto che sia.