Felice Della Corte tra verità e bugie(in scena)

Da giovedì 4 a domenica 14 maggio presso il Teatro Manfredi di Ostia, in via dei Pallottini, andrà in scena la commedia La Cena di Veermer di Maria Letizia Compatangelo, interpretata da Felice Della Corte, in veste anche di regista, con Mario Scaletta, Tiziana Sensi, Caterina Gramaglia e Paolo Gasparini .

Verità, bugie, apparenza, una mescolanza surreale. Ma i fatti sono storici. Un’incredibile vicenda, un personaggio assurdo, la scommessa con l’arte e con la vita di Han van Meegeren noto come “il falsario che truffò i nazisti”.

Fu tra i falsari più noti e abili del secolo passato tanto che con la sua abilità pittorica (ci vuole talento anche per questo) riuscì a truffare Hermann Goering, nazista del Terzo Reich e collezionista d’arte.

Han van Meegeren, l’uomo che nel 1945, accusato di collaborazionismo – un fenomeno odioso politico e sociale connesso direttamente con il nazifascismo e con i nazisti – si ritrovò all’improvviso dall’essere considerato persona “infame” ad eroe nazionale. Obbligato a diventare falsario per sopravvivere, Han sceglie il noto artista ma tutto questo gli prende la mano, non si ferma, va oltre. Lui non “falsifica” Vermer ma diventa proprio Vermeer: all’inizio vuole solo vendicarsi dei critici che lo hanno accusato e messo al bando. E come ci racconta il regista, durante l’intervista, si tratta di “una storia affascinante perchè ribalta le prospettive”, dichiarare una colpa per scagionarsi da un’altra ben più grave.

Abbiamo raggiunto Felice Della Corte, regista e interprete dello spettacolo:

Parliamo dello spettacolo, come nasce l’idea creativa e con quale sguardo da regista fa muovere i protagonisti in scena?
L’idea dello spettacolo nasce dal particolare coinvolgimento che ho sentito leggendo il testo scritto da Maria Letizia Compatangelo. Conoscevo già la storia e l’ho sempre trovata estremamente affacinante perché ribalta le prospettive. La grande particolarità è che ad un punto della storia il protagonista, per scagionarsi da gravi accuse, deve dichiarare una verità che di solito sarebbe ritenuta una grave colpa. Questa colpa diventa improvvisamente il modo sicuro per salvarsi la vita, ma non solo: rappresenta anche il modo di affermare se stesso attraverso qualcosa di non vero, posticcio. Questi due aspetti della storia sono gli elementi che mi hanno affascinato e mi hanno fatto decidere di metterla in scena.

Una storia vera, molto particolare:
Ci sono dei fatti che sono assolutamente storici: è un fatto che il falsario Han Van Meegeren ha venduto un falso Vermeer, da lui stesso realizzato, a Hermann Göring, il vice cancelliere del Terzo Reich. La vicenda è stata romanzata un po’ per rendere la metafora più forte.

Legata alla prima domanda, resto sulla figura del protagonista, un personaggio assurdo, particolare. Da imbroglione, bevitore, bugiardo ad eroe nazionale?
Proprio così. La sua vita è stata un gioco di specchi. Pur compiendo un’azione non eticamente riconosciuta come positiva, Van Meegeren è riconosciuto come eroe, con lo scopo di fargliela pagare al “cattivo”. Alla fine verrà osannato come l’artista che ha beffato i nazisti.

Verità, bugie ed apparenza si mescolano?
È proprio questo l’aspetto interessante della vicenda: verità e finzione che si mescolano in continuazione. Come noi interpretiamo queste due realtà spesso dipende da ciò che ci torna comodo.

Dicono di lei, Felice, che sia una figura “mitologica”: regista, attore, direttore artistico. In quale veste si sente maggiormente a suo agio e perchè?
Mi sento più a mio agio sotto il profilo artistico, quando faccio l’attore o il regista mi sento vivo. Questo non significa nella figura del direttore artistico non ci siano degli aspetti appassionanti anche solo per il fatto che sono legati a quella che è la mia attività. Potrei rinunciare a fare il direttore artistico ma a fare il regista o l’attore mai.

E tra il regista e l’attore?
Entrambi riempiono quel lato narcisistico ed egogentrico che c’è in me. In entrambi in casi sei cosciente di essere tu ad agire sulla scena. Il lavoro del regista è molto creativo e presuppone a mio parere una conoscenza dell’essere umano a livello profondo, ti consente di lavorare ad ampio spettro. Il lavoro dell’attore è legato al ruolo che ti è stato dato, quindi è più limitato ma dal punto di vista dell’impatto con il pubblico l’attore ha più riscontro rispetto al regista. Nell’immediato forse è più divertente fare l’attore, nella concretezza il regista.

Aprire un teatro oggi è un atto rivoluzionario: qual è la sua emozione nel vedere i teatri nuovamente pieni e sentire l’abbraccio del pubblico?
È sicuramente una bella sensazione. La partecipazione del pubblico è un discorso che parte da un punto un po’ più lontano nel tempo perché già prima della pandemia si avvertiva una necessità di cambiamento. La pandemia è stato un ostacolo nel processo di continua evoluzione sempre necessario a qualsiasi attività. Nel teatro, completamente bloccato nel periodo della pandemia, abbiamo subito un arresto e una forte crisi. Ora la macchina sembra essersi rimessa in moto e su questo dobbiamo far leva per profondere le nostre energie.

Il teatro è quel luogo in cui le cose vere accadono. È d’accordo?
Sono assolutamente d’accordo. In teatro spesso quello che accade è metafora e per questo ha un grande valore, dà valore alla vita.