I giganti rabelaisiani ci mettono gambe all’aria
Tra straniamento brechtiano e circo dada surreale il mondo del carnevalesco rabelaisiano, parte al rallentatore, per poi travolgere il pubblico con un crescendo in deformazione e in velocità (della dizione e delle epifanie). Uno spettacolo gigantesco. Di nome e di fatto. Alice Sinigaglia, ispirandosi anche alle teorie sul carnevalesco presenti nei saggi di Michail Bachtin su Rabelais e Dostoevskij, fa del mondo dei giganti che compare nel Gargantua e Pantagruel (1532-46) di Rabelais, il mondo del contropotere, del mondo alla rovescia, dove il corpo domina sul discorso come arma del potere (logica e controllo), e sulla bellezza come suo concetto ancillare e repressivo, discriminatorio. La bellezza, concetto platonico iperuranico disincarnato a cui contrapporre il mostruoso, come eccesso, vitalità, deragliamento. Non a caso la scena si apre su una asettica quanto comica conferenza “La mostruosità nell’opera di François Rabelais”.
I conferenzieri tuttavia, come più avanti una intervistatrice, sono sì apparentemente politicamente corretti, nel loro discettare sul concetto di mostruoso, come sulla bellezza, come sui personaggi del romanzo. Ma lo spettacolo tende sempre ad obliterarli, dissolverli, a farli deragliare, perché è il concettualizzare stesso che ingabbiando ed etichettando si fa miopia verso la vita, strumento mortuario del potere. Il corpo non deve comparire come forma, ma come funzione (mangiare, digerire, defecare, copulare, partorire). Ed anche alcune funzioni vengono in realtà in Rabelais (e dunque qui) inibite, in quanto funzionali al sistema. Così Pantagruel mangia ma non digerisce (cioè non si impadronisce), e la madre di Gargantua partorisce dall’orecchio. Il corpo, le funzioni, fuori dalla bellezza, diventano la gioia di vivere e il comico (si veda anche nel rinascimento, sul ridere, L’elogio della pazzia, di Erasmo da Rotterdam). Il carnevale e il comico. Il comico ed il piacere. Cioè la radicale uguaglianza creaturale che il potere non sopporta. Non a caso viene spesso citato anche Umberto Eco, che nel suo celebre giallo medievale, Nel nome della rosa fa proprio del ridere il tabu che il monaco assassino vuol proteggere, nascondendo il tomo di Aristotele sul comico. E tuttavia, anche qui, dare la parola ad Eco significherebbe normalizzare in teoria da un lato, dall’altro sdoganarne i concetti. Così assistiamo ad un Eco cancellato, pura eco di se stesso. Una prima volta quando la giornalista, citando il titolo non riesce a ricordare il nome dell’autore. Una seconda volta quando sullo schermo, annunciata una conferenza di Eco, compare invece il melanconico e sentimentale filosofo junghiano Galimberti, che parla della bellezza.
La bellezza naturalmente potrebbe anche platonicamente essere la bellezza morale, il bello e buono platonico, la bella e la bestia. Eppure, il rischio del tradimento è sempre alle porte.
Così lo smilzo conferenziere (uno splendido stralunato nervoso smilzo ed ego distonico Giorgio Pesenti), opponendosi al cicaleccio di fondo scena delle gigantesse rabelaisiane, dopo avergli dato delle troie, comincia ad elencare gli orrori moderni (guerre, stupri, infanticidio), da identificare con il vero mostruoso (non i giganti) a cui contrapporre la difesa della bellezza. Interiore? Dovrebbe. Ma il discorso accelera freneticamente isterico, in un delirio da fanatico posseduto, dove la bellezza sembra slittare nell’eugenetica o nel consumismo, tra nazi e neocapitalismo, fino a che esplode il ridicolo televisivo, la cancellazione nell’indifferenza dell’intrattenimento, e tutti saltano su in un allegro balletto da varietà.
Mentre, seppellita la coscienza, sullo schermo, in silenzio a smorire, compare la scritta EAT THE RICH. Una curiosa esortazione alla rivoluzione come pasto cannibalico, rabelaisianamente più fuori misura della compostezza gelida della ghigliottina.
Ma veniamo alla forma. Già si è visto come continuo sia il capovolgimento, lo svuotamento dei concetti. Lo slittamento, la cancellazione. Per esempio in più di un caso il discorso dei conferenzieri diventa inudibile grazie al rumore di controscene laterali o sullo sfondo. Come quando Davide Sinigaglia esegue lavori col trapano. Del resto, se si escludono le incarnazioni dove le conferenziere si trasformano nelle giganti protagoniste del libro, Davide Sinigaglia (il fratello della regista) incarna in tutte le scena, o fenomeni di disturbo (servo di scena che monta cose), o il diverso, come nel caso in cui nello schermo è Panurge intervistato, che manda in tilt la giornalista difendendo l’importanza del personaggio ordinario in un romanzo di giganti (su di me 400 pagine), e ribaltando la vis omologante della giornalista cominciando a fare lui domande – «Le piace la carne? Facciamo sesso?» – come al solito nel registro del corpo e non del concetto, e che le tolgono potere.
Si tratta di minare la padronanza. E così anche per il pubblico. Non solo infatti sono continui contraddizione ribaltamento svuotamento. Vi è anche un progressivo aumento performativo del corpo sul discorso, man mano che attori e attrici incarnano scene del romanzo.
Non solo.
Il gambe all’aria della padronanza investe anche il pubblico per il crescendo di scene e controscene in compresenza, ma soprattutto per l’accelerazione. Il discorso è lento, poi accelera, poi si dissolve in frenesia di quadri grotteschi.
Non a caso, se lo schermo domina il centro scena (visione centrale, cioè dominio), ai lati all’inizio campeggiano due alte stele con la riproduzione del Giardino delle delizie e dell’Inferno di Hyeronimus Bosch, dove il grottesco rabelaisiano si fa meno comico e più torvo e polarizzato. E alla fine al centro sarà posta la stele infernale. Sul mostruoso benevolo dei giganti sembra aleggiare quello torvo della violenza della morale e del potere. Del resto quando Davide Sinigaglia discetta di normalità, e cita il Concilio di Trento, gli altri attori si imbestiano e contorcono, con gestualità geniale, mimando con la voce galline e raglio d’asino.
Per fortuna ogni tanto il comico ci salva. Così mentre una gigantessa seduta su un water legge il libro, e mugola da disabile, al lato opposto, sul red carpet, in un cono di luce divistica avanza in pelliccia una chansonniere, che con tono sublime canta… dell’andare di corpo, dell’evacuazione. Una satira graffiante delle antinomie. La stessa funzione corporale marginalizzata in disabilità e sublimata in pseudocultura.
E così via, in quadri e controquadri vieppiù stridenti
Finché (quando il buio evidenzia lo schermo nel vuoto, ed il suo monito, Eat the rich) il pubblico può finalmente rilassarsi, e stordito applaude.
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Uno spettacolo gigantesco – Drammaturgia Alice Sinigaglia e Elena C. Patacchini – Regia Alice Sinigaglia – Con Emma Bolcato, Lorena Nacchia, Giorgio Pesenti, Caterina Rosaia, Davide Sinigaglia – Scenografie Alessandro Ratti – Disegno luci Daniele Passeri – Costumi Rebecca Ihle – Realizzazione scene Officina scenotecnica Gli Scarti – Datore luci e mixaggio audio Febe Bonini – Ufficio stampa Maddalena Peluso – Grafica Neostudio – Produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione e Teatro Nazionale di Genova con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea” – Produzione esecutiva e distribuzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Inn – Mattatoio – Romaeuropa Festival, 22-23 ottobre 2025.





