È da un bel po’che abbiamo smesso di seguire Simone Cristicchi a teatro con quella sorta di indulgente condiscendenza con cui si è soliti accogliere ogni genere di noviziato: lui viene dalla immensa popolarità del suo esordio come cantante, laddove il pregiudizio collettivo vorrebbe volentieri confinarlo. Ma siccome il ragazzo è intelligente e preparato, quella ribalta canora non è stata altro che una pista per lanciarsi dentro l’universo teatrale, come nel passato avevamo visto fare a gente come Giorgio Gaber o Massimo Ranieri.
Difatti, ormai, anche il palcoscenico teatrale -calcato con attore e come autore- lo ha accreditato come interprete sensibile, sempre cantore di una certa diversità, cercata tra le pieghe nascoste della storia. Lo ricordiamo recente dispensatore di un intenso racconto, declinato in ottave, sulla tragica esperienza della campagna di Russia, uno spettacolo che ha riscosso ovunque un larghissimo consenso.
Di pari intensità questo lavoro in scena in questi giorni al Teatro Vittoria, in scena fino a domenica 8 marzo
Si parla della diaspora del popolo Giuliano-Dalmata, di sradicamenti, di deportazioni forzose, genocidi di massa, campi di raccolta. Una pagina di storia che in tanti hanno colpevolmente schivato per decenni, per tenersi alla larga dal dovere di raccontare con onestà anche vicende capaci di sovvertire una certa precostituita e ideologicamente dominante sistematica di distribuzione di colpe.
Soltanto dal 2004 è stata istituita la “Giornata della Memoria delle Vittime delle foibe”, per cercare di conservare il ricordo dei martiri (forse qualche decina di migliaia, per un computo che non riesce ad andare al di là della sommarietà) caduti a opera dei partigiani jugoslavi, nella forsennata pulizia etnica contro gli italiani, civili e non, residenti in Istria in quegli anni. Vittime furono non solo gli scomparsi inghiottiti dalle foibe con un colpo alla nuca, ma anche gli oltre trecentomila costretti a sgomberare, lasciando case e averi, e cercarsi un riparo altrove, nell’Italia che non li voleva per via di una sommaria narrazione che li additava alla pubblica gogna come relitti del fascismo appena sconfitto.
C’erano bambini e giovani, donne e uomini, innocenti, responsabili solo dell’ascendenza italiana: c’erano anche futuri attori (Alida Valli e una giovane Laura Antonelli, poi riparata a Napoli con la famiglia) o il giovanissimo Sergio Endrigo, omaggiato da Cristicchi con un suo brano, cantato in coro con il pubblico.
Il racconto, pur possedendo una forte sostanza didascalica, conserva una cifra lirica che induce più di un momento di commozione. Si esce dalla sala compresi e emozionati. Ma tutto è declinato sui registri della delicatezza, anche nei passaggi più crudi e impietosi: ma questa dev’essere la “griffe” personale di questo straordinario artista, capace di parlare di tutto con l’accento sommesso di un aedo contemporaneo. Sembra proprio che stia sempre per proporci il regalo di una rosa…