L’attore milanese si conferma un grande mattatore e riempie la scena, passando, con l’agilità dei suoi vasti accenti, dal sorriso della commedia alla profondità delle riflessioni più amare di un padre tradito da se stesso.
In scena al teatro Argentina di Roma Un curioso accidente di Carlo Goldoni, con Gabriele Lavia, che cura anche la regia, Federica Di Martino, Simone Toni, Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpi e Leonardo Nicolini.
Una delle commedie meno rappresentate di Goldoni. Le scelte di Lavia non sono mai banali, del resto. Spesso predilige, con grande coraggio, le opere poco rappresentate, dando nuova vita a bei testi che non tutti conoscono. Poco nota, dunque, poco rappresentata, eppure una delle opere goldoniane più riuscite, nella quale l’autore esce dall’ambiente veneziano, conferendo all’equivoco amoroso un qualcosa di shakespeariano. E a tratti, anche la musica si fa shakespeariana, sebbene spazi tra antico e moderno in un’originale insieme di sonorità che fungono da commento ai fatti, con il supporto delle parole scritte da Lavia stesso, autore dei testi, brevi poesie in musica, puntuali, descrittive, dall’alta valenza drammaturgica: un perfetto coro di memoria antica.
Ma non è solo una commedia che corre sul carosello dell’amore, della gelosia, «dell’inganno e dell’incanto», come cantano i protagonisti. È un’opera mirabilmente inserita nell’epoca dei Lumi, dove la ragione prevale e così il buon senso; dove, pur senza mai assumere toni politici, il nonsense del classismo, dapprima aristocratico e poi borghese, si percepisce netto.
Lo stesso Voltaire non ha mai celato una profonda ammirazione per Goldoni: «Signor mio, Pittore e Figlio della Natura; vi amo dal tempo che io vi leggo. Ho veduta la vostra anima nelle vostre opere. Ho detto: Ecco un uomo onesto e buono, che ha purificato la Scena Italiana, che inventa con la fantasia, e scrive col senno».
La scena è prettamente laviana: imponente, ben costruita, un pezzo d’arte dello scenografo Alessandro Camera. Il rapporto empatico tra Lavia e la scena l’abbiamo visto sempre, del resto: ne Le leggi della gravità, ad esempio, con il Tempo scandito dal rumore del treno che entra da una grande finestra, da un orologio incombente e con la Vita racchiusa nel lungo bancone polveroso; ne Il padre, con il mobilio che disegna l’equilibrio precario della psicologia dominante in quella casa in contrapposizione al baule degli oggetti del protagonista, baule che, solo, gode di un equilibrio “sensato”; ne I giganti della montagna, una delle ultime grandiose produzioni che hanno portato vita pirandelliana al teatro Eliseo. E solo per citare alcuni lavori più recenti. La scena, nelle opere di Lavia, anche con l’ausilio di luci sapientemente realizzate, in questo caso di Giuseppe Filipponio, recita insieme agli attori, ma dice qualcosa di diverso da loro, elabora il non detto. Ogni particolare racconta una storia nella storia. In quest’opera, ad esempio, il drappo rosso che ricopre il pavimento ha lo stesso colore della passione: a volte sulla passione si passeggia inconsapevoli, altre volte non si vuole riconoscerla negli altri e la si calpesta, ma è lì, domina tutti e tutto, gli uomini, così come i personaggi di questa pièce, si muovono su di essa, si rotolano su di essa, vivono in essa. C’è anche un’altalena in scena; un gioco di bimbi, che, tuttavia, qui, segna anche quell’incedere incerto che la vita a volte impone, tra il su e il giù, tra l’avanti e l’indietro. Il camerino a vista, invece, ci fa entrare in un teatro che non cela se stesso, che si offre al pubblico completamente, senza veli. Ed è risultato raggiunto anche attraverso la felice scelta registica, tipica di Lavia, di portare i personaggi tra il pubblico in sala e, addirittura, il pubblico in una parte della scena, sicché il teatro non è più solo un edificio, ma un insieme di persone. Metateatro.
Particolari i costumi di Andrea Viotti: lunghi pastrani sui quali pennellate di un tenue arcobaleno in diverse nuances reinterpretano la maschera di Arlecchino. In effetti i personaggi che circondano Lavia si muovono con i gesti accentati delle maschere, le braccia spesso larghe a preparare un inchino, ma anche a mimare inesistenti fili tenuti da un inesistente burattinaio. Sul finire Arlecchino arriva veramente; un Arlecchino strappato al mondo dell’assurdo che sempre lo circonda, come il grande Ferruccio Soleri e, ancor prima di lui, Marcello Moretti ci hanno insegnato. Un’evocazione, più che un personaggio, in questo caso; una presenza che rappresenta l’iperbole goldoniana, fino ad allora più misurata. Forse, se un appunto può farsi ai costumi, rendono i personaggi femminili troppo simili tra loro, quasi intercambiabili. Sicuramente è un effetto voluto, rientra nel gioco degli equivoci, ma, all’inizio, spiazza un poco.
È un Goldoni, quello di Lavia, che lascia spazio al sorriso e al dramma. Il suo personaggio è divertente, distratto dalle proprie certezze al punto da non comprendere quel che gli sta accadendo intorno; lo sostiene una punta di narcisismo nel ritenersi padre migliore di altri padri, con una figlia migliore di altre figlie; ma, allo stesso tempo, è un uomo intenso, ricco di quel pathos che Lavia conosce bene. Egli passa agilmente attraverso una vasta gamma di sentimenti e risentimenti. Lo fa con tutto se stesso, esternando un’invidiabile fisicità, un’agilità notevole. Non si risparmia mai ed è una generosità attoriale, la sua, che rende onore al Teatro, quello scritto con la “T” maiuscola.
E, poi, è bello vederlo muoversi anche nel paesaggio di una storia impregnata di ironia. La sua mimica sottolinea efficacemente le battute divertenti e, anche quando si abbandona più semplicemente a considerazioni che si affacciano sul lato buffo della vita altrui, lo fa con grande maestria. Il suo costante riferimento alla Francia come patria di sfarfallii giocosi è esilarante. Goldoni stesso aveva una sua idea della Francia, come si legge in alcune sue lettere. Forse, però, nel descrivere il tipo francese, non avrei fatto cenno a «Allons en-fans», incipit della Marsigliese, poiché la vicenda narrata si svolge nel 1761 e l’inno francese è post-rivoluzionario. Però concordo sul fatto che descrive perfettamente il carattere dei cugini d’Oltralpe.
Bravi tutti, ovviamente. Non c’è nessuno che non sia entrato perfettamente nel proprio personaggio. Di particolare pregio il ruolo cameo di Andrea Nicolini, musicista eccezionale, che, tuttavia, in alcuni quadri, sostenuto dalla musica tenuta viva dal secondo pianista, Leonardo Nicolini, abbandona il pianoforte per interpretare magistralmente Riccardo, arcigno, bisbetico, amaro finanziere, il quale si muove a stento sui margini di un senso di umanità che sembra non averlo mai sfiorato, sebbene la lezione di Goldoni sia sempre quella: non tutto è come si crede che sia.
Federica Di Martino si conferma brava, forse troppo intensa nei momenti più giocosi o più sentimentali, ma impeccabile nella sua presenza scenica. Simone Toni, l’ambito e conteso Monsieur de la Cotterie, più degli altri interpreta la maschera, accentuando movimenti e toni e conferendo alla storia quella sfumatura farsesca che in Goldoni ha sempre un suo perché; inoltre conosce bene l’arte delle pause e delle parole che s’inseguono e strappa risate con giusta misura.
Vivaci, briosi e particolarmente attenti al ritmo della rappresentazione, che li vede in perfetto equilibrio tra gioco e serietà, tra amore e non amore, tra schiaffi e baci, anche Beatrice Ceccherini, che interpreta Costanza, Giorgia Salari, la graziosa Marianna, Lorenzo Terenzi, nel ruolo del Guascogna, e Lorenzo Volpe.
Nel complesso è un gran bel teatro, quello di Un curioso accidente, e merita di essere non già visto bensì vissuto anche più di una volta, perché il pubblico, come detto, vive la scena con gli attori. E non è, forse, questo il segreto e il senso di fare teatro?