Epica hybris gigantismo e sgomento

Una rumorosa macchina shakespiriana, tra ironia pietas e metateatro.

Uno spettacolo che ti viene addosso da subito, questo Moby Dick alla prova   di De Capitani, con energia ed ironia. Avvolgente, corale, scolpito e poetico.

E profondamente shakespiriano e strehleriano. 

E del resto, per un milanese profondo come De Capitani, come non aderire nella memoria al modello di alcuni capisaldi del regno strehleriano al Piccolo di Milano, come i suoi Re Lear (1972), Il giardino dei ciliegi (1974), La tempesta (1977), spettacoli che non possono non essersi incisi nell’allora ventenne futuro demiurgo del Teatro dell’Elfo, sia per ciò che riguarda la regia che per quanto attiene allo stile attoriale.

E come restare immuni alle innovazioni scenografiche che grazie a Damiano Damiani  accompagnavano quegli spettacoli di Giorgio Strehler?

De Capitani ricorda, cita, direi che rende omaggio.

Al centro del fascino scenico di questo Moby Dick sta infatti un gigantesco telo che, appeso, mima le vele, e fa immaginare la nave, ma che poi nel suo gonfiarsi ed ondeggiare si trasforma in vento prima, e poi avanzando in scena, prima in trasparenza onirica, e poi nel corpo divorante del capodoglio, fino ad inghiottire il protagonista, con inquietanti mugoli. E che alla fine, morbidamente adagiato a terra è metafora del silenzio e del lutto, di una pacata inesorabilità del fato, al di là della parola.

Il telo però come gigantesco e polivalente animale scenico, come scenografia che diventa corpo vivo, attore in scena, è una invenzione di Damiani, che fa la sua prima comparsa nel 1974 appunto, ne Il giardino dei ciliegi, ondeggiando sopra la platea, come soffitto di poesia che la collega al palco, e facendo piovere petali, fino a scendere poi sugli attori. Là sogno, qui fagocitazione del capodoglio. 

Ma non bastasse, il telo di Damiani ricompare nel 1977 in La tempesta, a mimare, proprio come qui, mare e vento. E diventando tanto famoso che la seta usata allora, particolare per la sua trasparenza e gli effetti luminosi che consentiva, viene battezzata HSE-Tempesta.

Del resto quella del capitano Achab, è l’epica di una continua implacata tempesta interiore, di una sfida agli dei che è al contempo hybris e la ferita narcisistica che si trasforma in amore dell’odio, odio per l’imperscrutabile, vendetta dell’umano, monco rispetto al divino. La rabbia dell’esilio che trasforma la caduta di Adamo nella rabbia del demone del miltoniano Paradise lost. Lampeggiano cocciutaggine folle e disperata e prometeico orgoglio, nella sfida alla morte. Muoia Sansone con tutti i filistei, muoia il male esistenziale che il capodoglio rappresenta, col suo biancore mortuario e gelido.

In Melville (qui teatralizzato sul copione che ne ricavò Orson Welles nel 1956) risuona Milton, come radice preromantica di titanismo, ma certo anche l’atro e cocciuto, coraggioso nichilismo di Macbeth. Quando Achab porta il suo equipaggio alla morte, e sé all’autodistruzione, pur di colpire Moby Dick, sa a cosa va incontro. Ma non recede.

“Out out brief candle”, direbbe Macbeth.

E non è forse la vendetta achabiana come la droga che divora Macbeth, un’ansia di potere, di onnipotenza che si fa sete inesauribile nel crescente vuoto interiore, annichilendo gli affetti: in Macbeth prima l’amico, Banquo, e poi la Lady; in Achab il richiamo all’affetto per moglie e figli a casa. Una versione cupa e mortuaria dell’ansia di avventura e conoscenza che innerva l’Ulisse dantesco  

né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore / 

lo qual dovea Penelopé far lieta,  / vincer potero dentro a me l’ardore 

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

Achab non si fa convincere a recedere, e così si rivolge all’ufficiale in seconda, Starbach 

“Achab è per sempre Achab, e tu lo sai. Io sono il luogotenente del destino. Sono al suo servizio, anche se sono un vecchio ridotto a un moncone che si trascina su un arpione scheggiato, che si regge su un piede solo. Questo è la parte corporea di Achab. Ma il suo spirito ! E’ come una bestia. Non mi vedrai mai cedere.”

E poi…

“Ora Moby Dick, tu che tutto distruggi, per amore dell’odio io ti sputo in faccia il mio ultimo respiro. E dal cuore dell’inferno, io ti pugnalo.”

Achab tuttavia non ha la cecità bestiale di Macbeth. Conosce tutta l’amarezza del dubbio. Soffre, pur non potendo sottrarsi, e conosce la propria follia. Ed ecco che giustamente De Capitani gli accosta Re Lear, accompagnandolo pure con la figura del fool, qui raffigurato nel mozzo, Pip, ma guarda a caso recitato da una donna, una versatilissima e poetica Giulia Viana, che all’inizio compare come Cordelia, la figlia dell’amore ribelle per la verità, che fa della verità il suo amare. Giulia riassume in sé i due lati dell’amore per il padre: quello puntuto severo sacrificale della figlia, e quello obliquo tollerante e soft del fool-mozzo, che con comicità spirito di sopravvivenza, lenisce la follia del vecchio, là il re, qui Achab.

Perché, come da titolo, siamo alle prove, e non in scena. Ancora va catturata la preda della rappresentazione. Le prove. Prima del Lear, poi di Moby.

Ed è un bel pezzo di metateatro. 

Si inizia infatti con De Capitani capocomico, che le fa provare il dialogo con Lear, spingendola a non essere sentimentale e prona, né falsamente poetica, ma aggressiva, e specchio della natura, secondo il dettato amletico. Allora il capocomico-Lear-Achab è come il maestro di cerimonia, il mago di La tempesta, il capocomico pirandelliano, che mettendo il dramma nella cornice della finzione, non per questo lo sminuisce, ma sottolinea la magia del teatro, esortando il pubblico, come Shakespeare nel Enrico V, a supplire con la fantasia a ciò che manca in scena, qui gli oceani, le navi, il capodoglio. Perché solo di una cosa ha bisogno l’attore, del pubblico. Se manca è come la peste, e bisogna affrontare la sfinge, a rischio di essere divorati. E’ stata data la cornice, ed inabissandoci in Achab ci pare di scordarci Lear, se non lo vedessimo fantasmizzato in un notturno interludio di debolezza di Achab, riverso a torso nudo su una sedia girevole, che impreca e si duole, e fraternizza con Pip (il fool), il ragazzino dalla pelle nera (un po’ fool, un po’ il Calibano di La tempesta ?), elevandolo a compagno di cabina, a suo eterno fratello. Con lui può mostrare debolezza, e il fantasma di Lear riemerge quando lamenta il peso della corona

”E’ dunque così greve la corona che io porto ? E’ scheggiata, e lo spigolo acuminato mi tormenta. Il cervello batte contro il metallo massiccio”

De Capitani è magistrale, potente, fragile, arido, fulminante, tonitruante. 

Sempre statuario, anche nella fragilità. Un umano a tutto tondo shakespiriano.

Ma veniamo al ricco universo sensoriale scatenato in scena, e alla coralità.

Se del telo abbiamo già parlato, che interpreta il lato poetico, oceanico, dolente, esiste poi uno scatenamento metallico, un movimento macchinario, che porta il senso frenetico dell’avventura, nella sua violenza dinamicità, e nel suo movimento di massa.

Perché una delle caratteristiche del romanzo – in ciò diverso da Shakespeare – è che in esso è continuo il movimento di masse. Certo gli oceani, il cielo, il vento, il capodoglio. Ma il nostro eroe negativo è anche un terrificante  domatore di masse. Dubitanti intimorite ammaliate abbagliate si slanciano come corpo del suo entusiasmo lugubre, poi si arrestano, sbandano, rinculano, per rilanciarsi poi disperatamente, obbedendo all’urlata sferza del ruggito di Achab.

Tutto ciò è reso da molti momenti corali, tra urla comiche e canti marinari in inglese, ma anche da una esorbitante rumoristica. Frustate a terra, battere dei piedi. E poi rulli di tamburo che accompagnano la presentazione degli arpionieri, danzanti con maschere afro, in un rito di iniziazione. E poi un picchiare sui tavoli di metallo, ed uno sbattere dei medesimi a terra, nel crescendo finale. E in mezzo, a mimare gli alberi della nave, il pulpito di una predica, ma direi anche mostri meccanici (l’uomo che aggredisce la natura?), tre alte scale netalliche.

Il metallo. 

La durezza della hybris umana contro una natura, sì terribile, ma anche morbida, di carne, raccolta nella sua legge. Quindi il telo, la natura che vince e divora, è anche la levità del vento, la morbida carne ferita del capodoglio, un velo grigio argentato nella notte della tragedia. Non a caso la splendida e dolente Cristina Crippa, nei panni del cambusiere, e narratrice in seconda, spesso in scena a scandire e ordinare cambio scena, ad un certo punto descrive un branco di cetacei materni, il branco in allattamento, e lo vediamo proiettato sul telo, in morbida acquaticità. Madri che ferite dall’uomo tingeranno il mare di sangue e latte. Natura madre dunque, o matrigna?

Sempre per quanto riguarda la metateatralità, se la Crippa prevalentemente dirige i cambi di scena, spiega i salti di spazio e tempo, dolore e dubbio sono intestati al narratore interno – presente anche nel romanzo (Ismael) – qui intensamente interpretato da Angelo Di Genio, voce della solitudine, pausa al microfono, tra un’ondata scenica e l’altra. Su tutte, per il suo effetto di controcanto, prima dell’inabissamento finale, quando in ginocchio descrive quanto sta per accadere

“Il gran dio si leva. Il corpo di marmo si alza in un grande arco, e poi si immerge

Quiete apparente”

Un ultima notazione, prima di chiudere questo disordinato referto critico di un oceano scenico, forse talvolta appena un po’ prolisso.

Per buona parte dello spettacolo c’è qualcosa di stranito e ieratico nella presenza scenica dei personaggi, ed è come se la loro voce fosse da un altrove. Forse perché in realtà, mentre Ismael, il narratore sopravvissuto è vivo, loro sono tutti morti?

Viene da pensarlo quando la sensazione si chiarisce. 

Non solo infatti spesso il loro volto è a maschera per il bianco della biacca. 

Ma per buona parte della rappresentazione indossano una maschera in lattice grigio nella metà volto inferiore, che impedisce la vista della mimica. Immobilità mimica e grigio, come irrigidite premonizioni mortuarie, che si toglieranno nel climax del rivissuto, nella corsa finale al delirio di morte.

Insomma uno spettacolo grondante, un delirio pausato da commenti, da uno straniamento narrativo che lo smorza, e permette, come in Wagner, una ripartenza in crescendo dopo che il crescendo era già stato raggiunto.

E quando il pubblico stranito ed esausto si gode il riposo della morte, telo a terra, e loro tutti in piedi muti, il capocomico scioglie la magia, e pacato recita

“Potete chiudere il sipario”

 E dopo il flusso oceanico, giustamente, un meritato applauso oceanico.

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Moby Dick alla prova, di Orson Welles – adattato, prevalentemente in versi sciolti, dal romanzo di Herman Melville – traduzione Cristina Viti – regia Elio De Capitani – costumi Ferdinando Bruni – musiche dal vivo Mario Arcari – direzione del coro Francesca Breschi – maschere Marco Bonadei – luci Michele Ceglia – suono Gianfranco Turco – con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari – coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale – Lo spettacolo è dedicato alla memoria di Gigi Dall’Aglio – Teatro Vascello, Roma 11-16 marzo 2025