Intervista a Eleonora Mancini in scena dal 19 novembre al Teatro Vittoria al fianco di Gennaro Duccilli con “Cattivi”
Dopo il debutto estivo a La Versiliana, Cattivi si prepara a fare tappa sulle scene romane, portando con sé un’indagine sulla complessità dell’animo umano. Abbiamo già avuto modo di parlare di questo progetto con il protagonista Gennaro Duccilli, ma oggi ci concentriamo su un altro aspetto centrale dello spettacolo: l’interpretazione del Daimon, figura affascinante che funge da guida nell’oscuro viaggio del protagonista. Ad accompagnarci in questo viaggio di scoperta è la stessa interprete, Eleonora Mancini, con la quale abbiamo intavolato una piacevole chiacchierata.
Quest’estate il debutto in prima nazionale a La Versiliana e ora vi preparate a calcare le scene romane. Come emerso in una nostra precedente chiacchierata con Gennaro Duccilli, protagonista della pièce, “Cattivi” è un viaggio esplorativo tra gli anfratti più remoti della natura umana. Come descriveresti l’esperienza di portare sul palco quest’indagine sulla natura umana? È un percorso che si rinnova ogni volta, offrendo magari nuove scoperte?
Si, questo è un po’ in generale da applicare a tutta l’esplorazione teatrale attoriale – almeno per come la intendiamo noi in compagnia. Ogni volta c’è un’esplorazione che riparte da capo; non si ricomincia da dove si è arrivati. Parte da capo, perché noi stessi siamo esseri che mutano in uno scorrere incessante. Così l’approccio alla vita e ai personaggi segue anche lo sviluppo dell’essere umano e di conseguenza è un lavoro che si rinnova; ricomincia da capo e non è mai uguale a se stesso. Di conseguenza, l’indagine sul bene e sul male, per quanto riguarda certi personaggi, uno può pensare che sia immutabile, nel senso che Otello uccide Desdemona e quello è…
Sì, esatto: il fatto; l’uccisione; la nefandezza è innegabile, quello è. Ma, ogni volta, l’attore si trova a confrontarsi con delle sfumature che magari in una versione precedente non aveva colto; non era pronto a cogliere perché il suo essere non era ancora pronto per cogliere certe cose. Quindi l’esplorazione è infinita. Ci si sorprende anche a volte nel trovarsi più vicini a dei personaggi cattivi di quanto non lo si fosse nella versione precedente. E in questo processo qui, questa volta, ci sono arrivata più vicina perché se l’essere umano è in grado di produrre certe cose così terribili e cattive c’è un motivo. Vuol dire che, in fondo, tutti noi potremmo cadere in queste faccende terribili.
Qui, interpreti il ruolo del Daimon, una sorta di suggeritore e decifratore dell’anima del protagonista.
Si, esatto. Il Daimon secondo l’accezione del saggista James Hillman, che ha teorizzato in questo testo che è il “Codice dell’anima”.
Interpreterò questa spinta vitale; questo compagno di viaggio dell’attore che lo guiderà in questo, forse, ultimo viaggio sul palcoscenico; ma anche nella vita alla riscoperta di questi personaggi; ma anche di questi frammenti della sua anima di personaggio e di attore. Quindi sarò specchio; schegge della sua memoria; sarò compagno di viaggio; spalla sul palcoscenico per quanta riguarda alcuni personaggi… E la cosa interessante è che tutto questo è stato possibile perché conosco Gennaro Duccilli da sempre e con lui abbiamo affrontato anche a livello sperimentale i personaggi attraverso la maschera interpretativa. Abbiamo fatto anche diverse esperienze insieme di palcoscenico, di vita; quindi inevitabilmente è un lavoro che per noi ha senso ed è più semplice da certi punti di vista.
Mi menzioni, per l’appunto, questo intenso gioco di specchi; di riflessi. Come descriveresti a tal proposito l’esperienza di incarnare le molteplici identità racchiuse nel protagonista?
A livello personale è stata una delle esperienze più difficili artisticamente parlando, perché non dovevo arrivare ad interpretare soltanto un personaggio secondo la mia idea di maschera del personaggio; ma questa volta era, per l’appunto, il riflesso dell’idea ogni volta del personaggio di Gennaro Duccilli. Quindi, arrivare il più possibile vicino alla sua idea di quel personaggio e arrivarci da un’altra strada. È stato molto complicato. Complicato; ma interessante perché a sua volta anche lui cambia.
E naturalmente ci deve essere un’intensa sinergia tra i due interpreti per dar vita a questa complessa operazione!
Si, sinergia e comprensione della natura umana in genere. Disponibilità; apertura al dialogo, alla comprensione umana, ai difetti, alle paure… Insomma, a tutta quella parte più nera: d’altro canto lo spettacolo si chiama “Cattivi” e quindi ci andiamo a misurare con delle parti un po’ più oscure del nostro animo.
Vestendo i panni del Daimon, nell’inesauribile sottotesto della pièce, quale elemento – emotivo, psicologico o comunicativo – è emerso in modo predominante?
La cosa più interessante, secondo me, è l’espressione corporea. Nei momenti in cui sono effettivamente Daimon e non interpreto proprio uno dei personaggi filtrati da Daimon e quindi ho trovato proprio una corporeità come Daimon, in quel momento – anche lì – il corpo si trasfigura secondo l’emotività del personaggio che sta interpretando Gennaro Duccilli. E questo lo trovo molto interessante. E quindi la corporeità, secondo me, è la massima espressione di questo Daimon.
“Cattivi” non è solo maschera teatrale, nel senso tradizionale del termine; ma anche maschera vivificante e vivificata. Se dovessi identificarti in una delle molteplici maschere “indossate” in qualità di Daimon, in questo momento, quale sceglieresti?
È impossibile dare una definizione proprio perché è molteplice e multiforme. È una creazione molto personale e descriverla a parole sarebbe impossibile. Quello che è sicuro è che è qualcosa di completamente diverso da quello che è il mio volto o il mio vissuto. Quindi, è una creazione totalmente nuova e continua ad esserlo ogni volta. Questo per quanto riguarda la maschera creata. Per quanto riguarda quella fisica, invece, sono partita da una maschera che ricordava il colore bianco; quindi trucchi che ricordano un po’ la commedia d’arte francese. E da quello, appunto, che è una tela bianca ogni volta sopra si vanno a creare delle altre forme. Ed è interessante perché da un personaggio all’altro e da un’accezione del Daimon all’altra tutti questi passaggi sono visibili proprio a livello fisico sul mio volto, seppure il trucco non ne aggiunga di nuovi.
In “Cattivi” vi è un continuo ed evolutivo gioco di ombre e luci che tende alla sublimazione dell’essere umano. Ritrovi questo processo anche nel tuo lavoro quotidiano come attrice?
Si, senza dubbio. Credo che una delle cose con cui faccio i conti ogni giorno è proprio accettare che dentro me stessa esistano elementi di oscurità e luce. E quando uno decide nella vita di fare un percorso così complicato come quello dell’attore e si misura con dei personaggi così cattivi, oscuri, una delle cose per me più complesse da accettare è stata proprio questa: accettare che io come donna possa interpretare una Medea, per esempio, per me già questo è scioccante perché nella mia testa risuona «dove vado a prendere queste cose?». Ed invece la risposta è che dobbiamo andarle a prendere dentro di noi, perché ci sono e bisogna accettarlo; scavare.
Credo, e spero, che il teatro serva anche alle persone per capire che queste cose esistono, ma le possiamo controllare; le possiamo sublimare attraverso l’arte. Le possiamo gestire a diversi livelli e non arrivare a compiere certe cose nella vita.
Per concludere. Rivolgendoci ai venturi spettatori di Cattivi, in che modo consiglieresti loro di assistere allo spettacolo per coglierne a pieno l’essenza?
Suggerirei di porsi senza pregiudizi (nel senso buono del termine); di mettersi lì e lasciarsi sommergere dalle emozioni che arrivano senza giudicarle e senza cercare di etichettarle soprattutto, perché ne arriveranno di diverse. Questo spettacolo è un highligts di momenti alti di teatro. Per esempio, in Otello e Desdemona arriviamo, in fondo, subito alla scena clou di tutta l’opera e quindi lo spettatore viene completamente sommerso da questa ondata di emotività che arriva e quindi deve lasciarsi attraversare. Credo sia l’unico modo!
E alla fine di tutte le emozioni che lo attraverseranno porterà a casa quest’ondata e cercherà di dire: «ho avuto tanto questa sera; ne faccio tesoro. Questo mi ha dato tanto anche per poter assistere in futuro ad altre pièce perché tante emozioni sono arrivate tutte insieme».
Possiamo affermare, quindi, che anche lo spettatore dovrà essere una tela bianca.
Si, ecco. Questo sicuramente. Magari non porre sul proprio volto una maschera, ma arrivare appunto con questa tela neutra e farsi tingere. Per utilizzare un termine americano, può essere un po’ “overwhelming” come situazione. La differenza tra questo spettacolo e altri, in genere, è che tutti gli spettacoli hanno un’evoluzione dei personaggi e della storia. Quindi il pubblico ha il tempo di entrare, di immedesimarsi con i personaggi; fare tutto l’arco del personaggio. Qui, invece, nell’arco di cinque minuti si passa da un highlights all’altro. Lo spettatore stesso è emotivamente spiazzante ed è questa la cosa più difficile da spettatori in questo spettacolo.
Cattivi, così, si rivela un viaggio teatrale che sfida lo spettatore a confrontarsi con i lati più oscuri e inaspettati della propria interiorità. È un invito a lasciarsi trasportare dal flusso di emozioni; ad entrare a teatro come una tela bianca pronti a vivere un’esperienza totalizzante. Un abbandono emotivo in cui trovare la chiave attraverso cui cogliere l’essenza di una pièce che, per sua stessa natura, non lascia scampo né a chi la vive sul palco, né a chi la osserva dalla platea.