«Io songo nat’ ‘o millenoviciento…»
«… figlio di padre ignoto, senz’amice,
facevo l’attore pe’ campà…»
Basta cambiare appena una parola, qua e là, e la vita di Eduardo la si potrebbe leggere in versi sfogliando i suoi libri di poesie. Ne ha scritti tanti di versi, perché la poesia l’ha usata sempre, in ogni circostanza, artistica e non, della sua vita. È cresciuto ed è maturato, sin da giovanissimo, fidandosi della poesia, perché Napoli in quel periodo era florida di poeti, e forse la poesia si è fidata di lui: della sua duttilità intellettiva, del suo occhio indagatore, delle sue intuizioni e anche delle sue proverbiali manie di grandezza che, meritatamente, l’hanno reso immenso. E grazie alla poesia, Eduardo è diventato, dopo aver sperimentato le sue doti recitative, paradossalmente prima autore e poi attore di se stesso; sì, perché poeta lo è sempre stato.
Anche Vincenzo De Pretore, colui che «faceva ‘o mariulo pe’ campà» è passato dall’essere protagonista di circa cento strofe di un incantevole poemetto alle tavole del palcoscenico. Grazie a quello stesso spirito poetico è nato Luca Cupiello, personaggio che, più degli altri, il grande pubblico indentifica con il suo autore e il suo interprete, ignorando che quel prototipo, diventato oggi un nostro caro antenato, sia stato trascritto attraverso i ricordi del nonno materno.
Il 31 ottobre scorso è passato sotto silenzio il 38° anniversario della morte del grande artista. Un giorno che chi, come il sottoscritto, è cresciuto «a pane e Eduardo» difficilmente dimenticherà. Era il 1984. Era ricoverato a Villa Stuart e da lì purtroppo si sparse la notizia. Il grande vecchio non era più con noi.
Eduardo, per quelli della mia generazione e forse anche per la precedente, è sempre stato vecchio. E lo diceva col sorriso: «Non vedevo l’ora di diventare vecchio, così non avrei più dovuto truccarmi per la scena e mai nessuno mi avrebbe potuto dire, da vecchio, “guarda com’è invecchiato!”». Vecchio è sinonimo di saggezza, e quanta saggezza si può ricavare dalle parole di Eduardo, poeta e drammaturgo, ma anche intellettuale.
In quest’ultimo periodo s’è parlato di Eduardo soprattutto in occasione delle proiezioni dei film di Martone (su Scarpetta) e del riuscitissimo ritratto che Sergio Rubini ha fatto sui giovani fratelli De Filippo. Soprattutto quest’ultimo ha riesumato le chiacchiere, un po’ pettegole, sugli astiosi rapporti tra Eduardo e Peppino. Proprio a causa dei dissidi col fratello, la fama di Eduardo è stata capace di oscurare ben due cognomi.
La pellicola di Martone, infatti, mette in luce come i fratelli De Filippo si sentissero estranei al casato Scarpetta: sia per l’asse ereditario che per il cognome. Pur essendo figli di quell’invadente «zio», geniale creatore di Sciosciammocca, non essendo mai stati da lui riconosciuti, portavano il cognome della madre Luisa. Di questo naturalmente ne soffrivano. Nel film di Rubini, invece, c’è una svolta: morto Scarpetta, Eduardo scopre di aver ereditato, sì, l’arte del padre naturale, ma senza quell’ingombrante cognome; e, sorpreso dalla felice scoperta, dice a Peppino: «Abbiamo la nostra arte e il nostro cognome», un’asserzione che dimostra la presa di coscienza di una loro indipendenza artistica. Nacquero i De Filippo, una compagnia che apparentemente non aveva nulla a che fare con il teatro di Don Felice Sciosciammocca.
La fortunata stagione del trio composto da Eduardo, Titina e Peppino, prende il volo nel febbraio del 1931 dalla sala del Kursaal di via Filangieri, a Napoli, dove debutta il loro famoso «Teatro umoristico» per approdare sui palcoscenici di tutta Italia, con testi di Eduardo e di Peppino. Il primo, più dell’altro, amava firmare le sue opere con svariati pseudonimi come Tricot, Molise, Consul e altri. «Se l’impresario di turno – spiega Eduardo molti anni dopo – avesse saputo che l’autore e l’attore erano la stessa persona, sapendo bene che all’autore venivano versati i diritti tramite la Siae, avrebbe certamente ribassata la paga all’attore». Artista sì, poeta pure, ma fesso mai!
Con la collaborazione anche di Mario Mangini (a tutti gli effetti cognato di Eduardo, avendo sposato Maria Scarpetta), il teatro comico dei De Filippo fu, per l’Italia intera, prima oppressa dal fascismo e poi sconquassata dalla guerra, forse la novità più gradevole di quegli anni. I rapporti tra i due fratelli, però, andavano sempre più tirandosi, e se non fosse stato per qualche intervento di Titina, probabilmente si sarebbero interrotti anche prima. Così, terminate le recite al teatro Diana di Napoli, il 10 dicembre 1944 Peppino lasciò definitivamente la compagnia. Trovarne le cause non è così facile come potrebbe sembrare! Da quel momento Eduardo, allora noto come De Filippo, comincia a sentire il peso anche di quel cognome e farà di tutto per affermarsi con il solo nome di battesimo. Partorisce l’idea del Teatro di Eduardo. Senza più cognome.
Proprio nello stesso periodo (fine anni Quaranta primi Cinquanta) a Napoli era vivissima una variegata tradizione teatrale. Salvatore De Muto, l’ultimo Pulcinella classico, ancora riempiva la platea del San Ferdinando, e sulla scia della più popolare tradizione agivano Raffaele e Luisella Viviani, i giovanissimi fratelli Maggio al Trianon, Tecla Scarano, Agostino Salvietti, Ugo D’Alessio, tutti fedeli divulgatori della commedia popolare e dialettale. Eduardo, che con le sue prime commedie pure aveva cominciato a percorrere lo stesso tragitto, fece una sterzata brusca ma di indiscutibile presa sul pubblico di tutta Italia. Probabilmente il successo fu raggiunto anche grazie alla stima e all’amicizia che l’aveva legato a Luigi Pirandello, di cui apprezzava la modernità della scrittura drammaturgica, ne esaltava il linguaggio, ne comprendeva a pieno le introspezioni psichiche e morali dei personaggi tradotte per il palcoscenico; tuttavia, il lavoro che Eduardo fece su se stesso lo portò in breve a distinguersi sia come autore impegnato sia come scrittore di un teatro aperto al pubblico nazionale. Molti, ancora oggi, gli rimproverano di aver abbandonato in maniera troppo determinata il dialetto napoletano giullaresco a vantaggio di una italianizzazione che favorisse la comprensione del testo in tutta la penisola. Altri notano che il suo teatro è diventato non più un «divertissement» di strada, ma una più intima esposizione moralistica e familiare racchiusa tra le mura di salotti borghesi dove annotava sempre più contraddizioni e meschinità.
Di quell’antica leggerezza, che affonda nella tradizione popolare, è rimasta comunque un’impronta indelebile che lo avvicinano stilisticamente al miglior Cechov: l’ironia, la facile battuta di spirito, l’improvviso lazzo o la trovata geniale che fu cara all’istrionico Sik Sik. Così nascono i personaggi di Zi’ Nicola ne «Le voci di dentro», e il nonno di «Sabato, domenica e lunedì». Una commedia dopo l’altra, la sua scrittura tecnica si affina sempre più. Uno stile talmente personale e severo che difficilmente, leggendo un testo eduardiano, si può immaginare una messa in scena differente da come l’abbia immaginata l’autore. Shakespeare, Goldoni, Pirandello, per esempio, lasciano aperte molte differenti possibilità all’allestimento di una loro opera; Eduardo difficilmente consente altre opzioni. Questo – che potrebbe anche essere interpretato come un difetto – rende il teatro di Eduardo un unicum capace talvolta di andare a braccetto con quel teatro napoletano di tradizione che lo battezzò sul palcoscenico del Valle di Roma alla tenera età di quattro anni.
«Napule è ‘nu paese curioso: è nu teatro antico… sempe apierto», è ancora il poeta che sostiene l’autore.