di Alessandra Antonazzo
Non c’è Coronavirus che tenga. Non basta un’epidemia a fermare il teatro! “È ita” ne è la dimostrazione. Lo spettacolo, scritto da Martina Tiberti e diretto da Sergio Brenna, interprete assieme a Giuseppe Mortelliti e Flavia Germana De Lipsis, è una pièce snella, verace, commovente, diffusa in diretta social dal Teatro Studio Uno venerdì 6 marzo alle ore 21.
E sono stati in tanti, in occasione dell’evento “Teatro a porte chiuse”, a seguire lo spettacolo in streaming, corredando di emoticon e sorrisi la chat della diretta. Applausi simbolici, applausi a distanza per premiare uno spettacolo autentico e il talento tenace di tre interpreti pronti ad andare in scena a ogni costo, anche senza pubblico in sala.
Ambientato in un paesino della provincia romana ai tempi del miracolo economico, lo spettacolo racconta la storia di Biagio, detto Bobby. Appassionato di boxe, stanco di guadagnare dai suoi combattimenti solo qualche spiccio e un panino con la mortadella, il giovane decide di andare in città per imparare un mestiere. Uno di quelli che “attacchi ‘a matina ma non sai quannu returni”, il muratore.
E sarà proprio il suono della sirena del cantiere a scandire i ritmi di scena, accompagnando un Biagio spaesato e confuso alla scoperta di un mondo nuovo. “Esiste un santo protettore dei muratori? Perché ci serve!”, domanderà Biagio a Francesco, compagno di lavoro emigrato dal Veneto.
“È ita” è il racconto scanzonato di due mondi opposti, eppure vicini. Il filo degli eventi sembra srotolarsi rapido agli occhi del pubblico, che riesce a cogliere ogni più piccola sfumatura. Persino il dialetto, ampiamente adoperato, diviene cifra stilistica dell’intera pièce e dona vivacità e ritmo alla narrazione. E allora quasi riusciamo a percepirlo l’odore di tutta questa umanità che si impegna per un benessere apparente, illusorio, alla portata di tutti. Sentiamo il vociare scomposto delle comari, ridiamo per il “battesimo del cinema” di Emiliuccia e viviamo le vicissitudini di Concetta, divenuta donna di servizio presso certi ricchi signori dei Parioli.
Gli attori spostano in autonomia gli oggetti di scena, di fatto costruendo in itinere una scenografia sempre nuova. Con le mani e l’ausilio di un telo bianco, complice un gioco di luci e ombre, danno vita al cane Buk. Si muovono leggeri sul palco, facendosi invisibili nello scambio tra un ruolo e l’altro. Raccontano sapientemente, con la voce e col corpo, accompagnando per mano lo spettatore e non lasciandolo andare fino all’ultimo istante in scena.
I tre attori, in una spola rapida e mai stanca tra scena e proscenio, sanno farsi ora protagonisti, ora voci narranti, delineando in modo nitido e coinvolgente il confronto fra le due realtà rappresentate. La prima, la quotidianità di Biagio e della sua famiglia, una realtà popolare fatta di atmosfere caserecce che sanno di vinello ingollato all’osteria, ballando un saltarello sulle note di un organetto. La seconda, la nuova vita esperita da Biagio insieme all’amico Francesco, quella di una Roma in cui si suona il boogie-woogie e si sperimenta la vita di cantiere. Una Roma in cui si sogna in grande e si muore cadendo da un ponteggio.
“Te sì miso a cantà la musica americana. Ecco perché sei cascato de sotto?”, domanderà Biagio al suo amico Francesco, travolgendo il pubblico in un turbinio di sensazioni amare. Sarà proprio la morte di questo prezioso compagno di viaggio a trascinare Biagio È ita al nel silenzio. Un mutismo di fumo e caffè freddo al vetro, che lo porterà a decidere di restare.
“Invece di morire per costruire le case degli altri me ne resto qui e mi finisco di costruire la mia”, confiderà in fine al pubblico, felice di aver compreso l’inestimabile valore di un cielo trapunto di stelle, sotto il quale, finalmente, potersi addormentare.