Dalla penna di Vera Herbert, già nota per serie tv come This is Us e Awkward, nasce Don’t Make Me Go, film Amazon Original diretto da Hannah Marks e presentato in Première mondiale al Tribeca Film Festival 2022.
La storia ruota intorno al legame tra il padre single Max (John Cho) e la figlia adolescente Wally (Mia Isaac). Quando Max scopre di avere una malattia terminale decide di spendere il tempo che gli resta per sistemare ed organizzare la vita di sua figlia una volta che non ci sarà più. Con il pretesto di una rimpatriata con gli amici del college, Max intraprende un viaggio con Wally con l’intento segreto di farle conoscere sua madre che molti anni prima li ha abbandonati.
L’opera è narrativamente stratificata: inizia come dramma, si apre alle sfumature del dramedy, vira verso il road movie spensierato per poi tornare dramma nel finale; non ha paura di osare e questo lo dimostra anche nelle tematiche trattate. Si affrontano temi come la solitudine, la perdita di un genitore, le relazioni tossiche, la malattia e la morte. Ma il pregio del film è la leggerezza con cui tematiche tanto dure vengano ammorbidite dalla narrazione e dalla credibilità dei protagonisti.
La malattia di Max, ad esempio, è una presenza fondamentale nell’economia dell’opera perché è il motore di tutte le azioni del protagonista, ma allo stesso tempo non si impadronisce della narrazione permettendo al film di non scadere in banalità ed inutili patetismi. Max è un personaggio razionale ed estremamente pragmatico che spinto dall’amore per sua figlia non si lascia vincere dal dolore e trova nella malattia la forza propulsiva per andare avanti e vivere appieno il suo ultimo viaggio.
Il tema della malattia non è dunque un pretesto alla base del dramma ma, anzi, una qualità aggiunta. Il senso di morte che guida il protagonista è anche il suo punto di forza, è una paura che lo guida durante il viaggio ma che gli permette di rivalutare la sua vita sotto una luce diversa. Diventa subito chiaro che il viaggio come elemento narrativo simboleggia un viaggio interiore, una presa di coscienza per i protagonisti che imparano ad appianare le differenze e scoprire qualcosa in più su loro stessi e sul loro rapporto.
La seconda protagonista dell’opera è Wally, una ragazza guidata dalle emozioni e dalle turbe adolescenziali, ancora persa e confusa sulla direzione che deve intraprendere la sua vita. È immediato pensare che il suo personaggio sia banale e stereotipato, ma ancora una volta il film va oltre le aspettative. Se da un lato è vero che con Wally l’immedesimazione è più difficile perché incarna alla perfezione il cliché dell’adolescente ribelle, dall’altro la narrazione si impegna a scavare nella personalità della ragazza, lasciando trapelare di volta in volta pensieri e riflessioni che la rendono un personaggio più credibile e convincente.
Ciò che non risulta credibile e convincente invece è il finale. Il film inizia con la voice over di Wally che promette: “non vi piacerà il finale, ma credo che vi piacerà la storia”. La voce narrante gioca così con le aspettative dello spettatore: se si pensa all’ovvietà della morte di Max, già preannunciata dalle prime scene, si assisterà invece a quella di Wally che morirà inaspettatamente per una malattia a lei sconosciuta.
Se con la malattia di Max il film non ha voluto sfruttare il patetismo che poteva conseguirne, lo stesso non avviene con la malattia di Wally che diventa un mero pretesto per spettacolarizzare il finale e sconvolgere lo spettatore. La scelta dell’autrice appare forzata e in contrasto con il resto del film che invece ha come forza la credibilità dei personaggi e l’intento di non voler edulcorare o enfatizzare il dramma narrato, ma presentarlo quanto più simile alla realtà. Eppure, quella che sembra una scelta di scrittura poco coraggiosa non va nel complesso a minare la buona riuscita di una pellicola che porta lo spettatore ad assistere agli alti e bassi dei protagonisti, a vivere le loro ansie e paure, ma anche a riflettere sulle stesse fino ad abbatterle.