Veronica Liberale -qui in veste di attrice e autrice- possiede il non comune talento di lascarsi attraversare da ordinarie vicende di strada, dall’apparente assenza di potenziale drammaturgico, declinandole in forma grottesca, al servizio di una narrazione complessiva, che alla fine risulta profonda e nello stesso tempo divertente e soprattutto delicata.
Zavattini diceva che chi vuole creare storie deve prendere i mezzi (intesi nel senso di autobus o metropolitane): a Roma l’esercizio è particolarmente complicato per tutta una serie di ragioni, ma l’abilità di sapersi guardare attorno assicura una pesca fruttuosa. Solo così, ci si mette al riparo dal raccontare storie stucchevoli, con i soliti sopralluoghi dentro coppie in crisi, sulle quali abbiamo già detto tutto e più di tutto.
In questa commedia proprio di mezzi pubblici si parla: cinque persone sono rimaste intrappolate negli ambienti della metro B, sotto la fermata Policlinico. Siamo a ridosso dell’ultima corsa notturna, è passato l’ultimo treno, mentre fuori imperversa una di quelle burrasche tipiche degli esordi autunnali a Roma. Tra gli aspiranti passeggeri si trovano a condividere l’imprevisto Benedetta, una giovane in vestito da sera (la stessa Veronica Liberale), un afgano che si guadagna da vivere con l’intrattenimento canoro dei passanti Simone Giacinti) , una guardia giurata armata (oltre che di pistola alla cintura) delle parole d’ordine e dei vezzi violenti e razzisti di questi tempi scuri (Emanuele Cecconi), Immacolata, una ragazza incinta, ormai prossima al parto (Francesca Pausilli) e sua madre (Antonia Di Francesco).
La convivenza forzata nella prigione di quell’imprevisto si annuncia lunga e una serie di contrattempi impedisce ogni richiesta di soccorso. Non c’è che da sopportarsi: questa è la piega metaforica che prende subito la narrazione. Ma tutto si complica perché a regnare sono reciproche idiosincrasie e pregiudizi che alimentano tensioni e l’abbrivio di un dramma.
Ma, per fortuna, il teatro sa di essere un’emozione continua, disponibile a lasciarsi interrompere solo dall’esistente: e quindi il seguito della narrazione è una intelligente traversata ucronica, l’unico luogo in cui si riesce a pacificare quella insensata conflittualità tra umani (è in questo contesto che compare, a sorpresa, un altro personaggio interpretato dalla giovane (Fatima Alì).
La pièce si lascia apprezzare essenzialmente per l’originalità e la struttura drammaturgica del copione (oltre che per la convincente prova dell’insieme attoriale): forse rimane un po’ in secondo piano il sostegno registico, magari volutamente, per cedere il giusto risalto al testo, atteso che l’allestimento è curato da un esperto padrone delle scene come Pietro De Silva.