Sul palco de’ Servi la cucina del «Rigatoni» si trasforma in un campo di battaglia
Dopo aver pazientemente ricostruito la locandina, grazie alle fotografie rintracciate sui profili Facebook di ciascuno degli interpreti, affiancandogli i ruoli, e quindi donando a ogni fisionomia una dignitosa identità (valore che i produttori pare abbiano scordato) attoriale e non solo, torna alla mente il periodo di quando nei foyer del teatro si leggevano con comodità i nomi accanto ai personaggi. Non parliamo poi di quando si sfogliavano i programmi di sala che conservano ancora oggi – per chi li mantiene – gran parte della storia del teatro del dopoguerra! Era un altro secolo, evidentemente, eppure la corrente elettrica già esisteva, la televisione pure, e c’era anche un gran rispetto per il teatro. Non c’era pericolo di essere infastiditi dal cellulare del vicino, per esempio!
Ieri sera il primo accenno di quell’antico rispetto è arrivato proprio dagli interpreti che si sono presentati sul palco – anzi no, sono arrivati dalla platea dove si svolge un breve prologo – senza microfoni, ma con le loro voci al naturale. E – udite udite – tutti hanno sentito. Tale rispetto, s’è dimostrato anche essere il primo atto di buona volontà dei quattro Diavoli in cucina.
«La commedia – si legge nelle note – è un graffiante spaccato degli eventi che stiamo vivendo: dalla voglia di ripresa al problema dell’occupazione, fino ai rapporti di amicizia e di affetto che possono essere messi in crisi da un momento all’altro.» Sintetizzare in pochissime parole un testo teatrale non è mai stato facile, ma fallirlo del tutto è molto più difficile. Indubbiamente il concetto della crisi del lavoro è un argomento presente nella pièce di Gianni Quinto, tuttavia, il tema non vuol essere una denuncia sociale, piuttosto sembra il pretesto per far cominciare l’avventura del nuovo ristorante «Rigatoni» che Michela cerca di avviare con grandi sacrifici a causa di un proprietario assai tirchio. Il primo problema da affrontare è trovare una valida squadra di collaboratori: in breve Francesco, Marco e Nando l’affiancano con entusiasmo. Nessuno di loro però è in grado di lasciare le beghe familiari al di fuori dell’esercizio, per cui in cucina ognuno mette a cuocere i propri affanni, le proprie angosce: chi con la mamma eccessivamente protettiva, chi con la moglie despota e chi con il compagno capriccioso. Gli animi si esasperano, le difficoltà aumentano, il boss taccagno stringe ancor di più la cinghia e Michela è messa in condizione di dover prendere una severa e disperata decisione.
Della trama non diremo più, anche perché l’autore, è evidente, ha costruito i due atti con il chiaro intento di divertire; usa, quindi, leggerezza e facili boutade (qualcuna fin troppo annunciata!) ricorrendo talvolta all’eccesso risolutivo. Della messa in scena e soprattutto della recitazione, invece, potrebbe tornar utile qualche appunto: la buona volontà non sempre è sufficiente a giustificare certe flessioni sia registiche che recitative.
Ci sono alcuni momenti in cui, a turno, gli attori rivelano pensieri personali che si distaccano dal contesto dialogante. Questi sono sottolineati da Massimo Natale che ha curato la regia, con un repentino cambio luci e una dichiarata prospettiva della voce verso la platea: è l’instante in cui idealmente casca la quarta parete e l’attore si trova a tu per tu con il proprio confidente, il pubblico. Era un’antica trovata scenica che sin dalla commedia dell’arte a Goldoni fino a Feydeau consentiva di dar voce a quelle battute che venivano indicate sul copione come gli a parte. Sono escamotage che, se da una parte risolvono situazioni (spesso comiche, ma anche no), dall’altra obbligano il regista ad essere intransigente con i suoi attori, i quali durante i battibecchi non dovrebbero più cercare l’approvazione della platea. Invece, troppe volte, balletti compresi e ammiccamenti e smorfie (quel pasticcione del Tirocchi quante ne fa!), si guarda là, oltre la ribalta, per strappare una facile risata.
Secondo le vecchie regole dell’educazione teatrale, signor Alessandro, la risata che soddisfa un attore, quando non si fa dell’avanspettacolo, è quella che arriva grazie all’intesa (toni e tempi delle battute) con il collega. Se per avere una reazione dal pubblico, un attore è costretto a interrompere il ritmo del dialogo per mostrare il proprio sbigottimento alla platea, conquista, sì, una risata, ma perdendo un tempo rischia di sciuparne altre due.
E al Natale vorrei anche suggerire che tutto quel fragore finale da campo di battaglia, con lancio di alimenti da destra a sinistra e viceversa, se interrotto da un buio a intermittenza, perde d’intensità: una volta raggiunto lo zenit, l’effetto è passato; ripeterlo è del tutto superfluo!
Il Paniconi, nomen omen, pecca di esagerazioni sia nei toni che nei movimenti, e qua e là sembra vagar nel panico. Il suo personaggio (Marco) dovrebbe essere molto più misurato rispetto a Francesco, invece, spesso si lascia trascinare dall’esuberanza dell’altro e i caratteri si perdono. Per quanto riguarda il tenero Giacinti – che dire! – ride in scena molto più lui del pubblico e questa piaga non aiuta a sostenere né i ritmi né le intonazioni, ragion per cui la vis comica della situazione spesso viene ammortizzata.
Non possiamo esimerci dal chiudere il quartetto con Valeria Monetti, che essendo la più volenterosa di tutti, rappresenta meglio degli altri quello sforzo comune con il quale questa compagnia cerca, con lodevole impegno ed entusiasmo, di allietare la platea di un teatro sempre elegante e mai pretenzioso. Purtroppo!
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Diavoli in cucina di Gianni Quinto. Con Valeria Monetti (Michela), Maurizio Paniconi (Marco), Alessandro Tirocchi (Francesco), Simone Giacinti (Nando). Regia di Massimo Natale. Al Teatro de’ Servi, fino al 7 gennaio
Foto di copertina: Il prologo in platea dei quattro chef del «Rigatoni»: da sin. Alessandro Tirocchi, Simone Giacinti, Valeria Monetti, Maurizio Paniconi © Elena Tomei