La vertigine dell’identità, tra solitudine, ribellione e delirio poetico nel corpo di un uomo qualunque all’Off Off Theatre
“Ciò che mi ha sempre attratto in questo racconto non è tanto la fascinazione del pazzo, quanto la solitudine, la mancanza di accettazione, quella conscia o inconscia ribellione nel costruirsi un’altrove. La malattia come sopravvivenza, probabilmente unica anestetizzante risposta. La mancanza d’ amore, quel senso di inadeguatezza che ci fa guardare agli altri con invidia o rabbia, come meta di felicità lontane, che ci fa sognare riscatti sempre posticipati…” dichiara nelle sue note di regia Francesco Meoni, consolidato interprete, noto al grande pubblico per innumerevoli partecipazioni a fiction televisive e cinema, dotato altresì di una esperienza teatrale non comune (dato il lavoro con registi del calibro di Sepe, Scaccia, Lavia, Binasco, Zanussi, Chiti tra gli altri) che oggi incarna e disincarna insieme l’impiegato Akakij Akakievič, frutto del genio febbrile di Gogol‘.
“E allora perché sono un consigliere titolare? Perché proprio consigliere titolare?” ripete un Francesco Meoni pallido, provato, felice, quando riceve, ancora tremante, e appena rivestito da una nudità appropriata alla spoliazione psicologica del personaggio, una ieratica processione di pubblico stordito ad abbracciarlo. Ripete ossessivamente la domanda che segna anche la call vocazionale di questa coraggiosa, produzione, dove porta in scena, peraltro dando tutto se stesso, sia da un punto di vista emozionale che pratico, il monologo dal titolo Diario di un pazzo, adattandolo dal testo Memorie di un pazzo (Zapiski sumasšedšego, 1835) ritradotto per Adelphi da Serena Vitale, che ha debuttato in prima nazionale presso il Teatro Off Off di Roma il 7 di Maggio. Un pilastro della letteratura mondiale, che, in barba alle improprie tentazioni di censura al genio russo serpeggianti, riadatta a se stesso, autodirigendosi, con miracoloso effetto trinitario.
Quotidianamente dedito a sbrigare carte e temperare incessantemente matite per i suoi dirigenti, avvolto da una aura di kafkiana, innocente frustrazione e prodromo di memorie dostoevskijane, altrettanto sotterranee e non meno vertiginose, come l’altrettanto memorabile scrivano Bartleby di Melville, Akakij sembra devotamente compreso nel suo monotono esercizio quotidiano, quando le crepe di un precipitoso disequilibrio mentale cominciano a palesarsi, attraverso slabbrature irrequiete nell’ordine polveroso delle cose. Il minuto Meoni giganteggia, nell’esibizione impietosa della propria nudità, dove anche l’esibizione è in sé regale incorporazione del sintomo, mosso dall’orizzonte di interrogativi che lo hanno spinto a catapultarsi in quell’ufficetto muffo e conforme ai dettami della tradizionale burocrazia sovietica: «Chi di noi non si è mai chiesto ‘perché sono così’? Perché mi è toccata in sorte questa vita? Perché non sono altro?» si interroga Meoni, materializzando una scena dove, sotto una luna piena, l’egida dei lunatici, ma anche dei visionari e dei poeti, assistiamo alla licantropia emozionale di una mise en abyme irresistibile. «…è da qualche tempo che ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito», ci confessa candido lo scrivano, con la sincerità di chi al gioco del mondo non sa partecipare per natura, forse proprio perché non ha saputo evitare di soccombervi, ma insieme con la rassegnazione quasi vocazionale di un santo, o di chi comunque si sa destinato a non fare parte di quell’ingranaggio, perché conformato a definirne le penombre.
Parabola di declino e mistica ascesi insieme, segnata con inchiostro indelebile già sin dalle prime incrinature, quando il protagonista ci svela il suo improbabile richiamo verso la giovane nobile, irraggiungibile figlia del dirigente stesso, che lo porta a spiarla dialogando con un cane; ad essere un cane stesso, forse, poiché i cani “hanno un occhio politico per tutto”. Separazione involontaria ma decisa dal mondo funesto degli umani, da quel clima tedioso e molesto che forse oggi echeggerebbe come mobbing, in un compito privo di vantaggi, risorse e prospettive o lenta fusione panica con un istinto primordiale, che forse ha più umanità di quella dei cosiddetti “umani”?. E noi chi siamo invece e quante identità imprecise e vagheggianti, fino al delirio mentale, abbiamo assorbito dal Teatro classico… da Pirandello a Shakespeare, quante dall’immensa letteratura russa, da Dostoevskij a Čechov, quanto apparentemente già ascoltata potrebbe apparire la perlustrazione subacquea animica nelle slabbrature dell’autoinganno, eppure Meoni riesce ancora a stordirci, a commuovere un pubblico ammutolito dal suo cesello emozionale continuamente variegato, nella narrazione sorprendente ed impeccabile del precipizio in un delirio di purezza commovente.
“Quante aspettative, quante frustrazioni si stratificano , sempre in attesa che quell’effimero senso di giustizia ci restituisca ciò che riteniamo ci spetti, e quanto incolpiamo sempre qualcosa o qualcuno per le nostre sfortune, per i nostri dolori, quanti alibi, pur di nascondere a noi le verità meno gradite in un asfissiante rimuginare?” sono domande che ci riguardano inappellabilmente tutti, trascinandoci con impeto nella misera stanza di Aksentij, che prima ancora che manicomio, è prigione della testa, scatola cranica di illusioni, dove come fantasmi, prendono forma paure, insicurezze fino farle diventare maschera, rifugio e consolazione nell’insensatezza del vivere, nella sopportazione del destino che gli è toccato in sorte.
«Non capisco come ho potuto credere di essere un consigliere titolare. Come mi è saltata in testa un’idea così strampalata? Meno male che nessuno ha pensato di chiudermi in manicomio…» e il paradosso prospettico divora totalmente il nostro Aksentij. Così quella realtà prima noiosa, poi frustrante, si ribalta con violenza sul suo tenero apostata, che, malgrado il sadismo crescente, mascherato da terapia, che si trova a subire (colpi sulla schiena, acqua ghiacciata sul capo) insiste in stile Don Chisciotte a rinarrarla in una favola finalmente valorizzante. Così le frustate diventano l’usanza cavalleresca che lo incorona Re di Spagna, quello che può attrarre l’unica Dulcinea desiderata, lasciare attoniti i colleghi di routine, nel meritato svolgersi di Gloria.
O forse invece no, perché certe soluzioni non sono del pianeta, perché “…qui sulla Terra c’è un tanfo spaventoso, al punto che bisogna tapparsi il naso. Invece la Luna è una sfera così delicata che gli uomini non possono assolutamente viverci, infatti adesso ci abitano soltanto i nasi” scrive Gogol, in scoperta citazione del suo più noto capolavoro, e con sguardo che sembra provenire dalla luna stessa rilegge Meoni, in un processo identificativo di brividi parossisistici, incontenibili, contagiosi. Perché non è vero che il pubblico desideri solo il facile, il rassicurante, anzi, in questa performance di qualità fuori dal comune, il teatro riacquista con smaccata evidenza la sua originaria funzione catartica, esorcizzando nello sguardo empatico la propria intima vocazione all’ossessione, l’inconfessabile onnipresente paura d’impazzire che tutti ci riguarda. Perché, in tempi come questi, è tentazione sempre più comune ambire al “Lontano, più lontano, dove non si veda più nulla, nulla…” Perché è in quell’orizzonte di pericolosa astrazione dalle cose, e insieme di fedeltà estrema al proprio sé, che turbina da sempre il cielo.
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Diario di un pazzo – Tratto dal racconto di Nicolaj Gogol – Di e con Francesco Meoni – Direzione tecnica sound design Umberto Fiore – Scene Marta Montevecchi – Disegno Luci Giuseppe Filipponio – Aiuto regia Tommaso Garrè – Musiche a cura di Francesco Meoni e Umberto Fiore – Off Off Theatre dal 7 al 9 maggio 2025
Foto di copertina: ©Azzurrra Primavera