Deliri di impulsi tra sogno e prigionia

La danza tragica della volontà

Quella andata in scena all’India (Roma, 8-19.5.2024) è una trasfigurazione, una cerimonia sacra, un sacrificio rituale in chiave moderna e nevrotica. E l’attore, Lorenzo Gleijeses, fa stridere e risuonare il suo corpo, con dolore e pervicacia, come le corde di un violino, come un violino d’anima e una macchina della tortura.

Molti hanno detto che questo – nonostante l’apporto di Eugenio Barba e Julia Varley – non sembra uno spettacolo dell’Odin Teatret. Forse. 

A un primo sguardo. 

In realtà lo è profondamente. 

Ma prima di inoltrarmi nello specifico segnalerò un fatto curioso. Sia su internet che nella brochure del Teatro di Roma, lo spettacolo compare con due titoli diversi: 

Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa oppure Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa.

Credo si tratti solo di un curioso errore, ma può anche essere che il titolo sia cambiato nel tempo. Comunque sia, fatale e qualunque, sono parole ben diverse, e aprono ad un discorso, essendo il testo performativo in scena tale da renderle lecite come interpretazioni parallele.

Tornando tuttavia alla ipotetica distanza dalla linea dell’Odin, mi pare che l’accento sul lavoro collettivo, e sulla ricerca come qualcosa che eccede l’intenzione rappresentativa, come emerge da una intervista all’attore, già smentisca l’assunto.

Ecco le sue parole.

Inizialmente non avevo in mente uno spettacolo, ma un progetto pedagogico basato sul procedimento surrealista del cadavre exquis. L’idea era quella di produrre del materiale scenico da far rilavorare a diversi maestri, proprio come facevano i poeti surrealisti, per cui il componimento finale era frutto di un lavoro collettivo, senza che si potesse vedere dove finiva la mano di uno e iniziava quella dell’altro. Il primo nucleo nasce dunque con degli oggetti coreografici, che con Michele abbiamo definito “preghiere”, e che sono una sequenza di quattro, cinque, sei azioni fisiche al massimo.

Detto questo, se il teatro di Barba era corale, di gruppo, e profondamente politico, talora etnico nella gestualità e ritualità nati dall’incrocio di grammatiche teatrali internazionali, sempre è stato centrato sulla corporeità. E qui la corporeità è al centro, benché in versione implosiva e solipsistica. Resta inoltre – fatto salvo il raggelamento tragico, e la riduzione all’io – che l’assunto è profondamente politico se lo si vede come espressione del crocevia tra alienanti messaggi sociali e disagio ontologico, con una deriva al limite dello psichiatrico.

Perché se di base Barba e compagni si sono spostati da Brecht a Beckett e Kafka, qui in realtà il protagonista in scena esibisce un disturbo che sta tra lo spettro del narcisismo e dell’ossessivo compulsivo, con relativa disfunzionalità relazionale.

Il padre (linea Kafka), e assurdo e nonsenso (linea Beckett), restano sullo sfondo, mentre compaiono la figura dell’amata e della terapeuta.

Ma si badi bene, compaiono come voci telefoniche, ma potremmo dire, in un certo senso, come le voci di un delirio persecutorio.

La struttura della narrazione-performance è semplice. Gregor è un danzatore, tormentato, insicuro, persecutoriamente perfezionista, ossessivo compulsivo.

Ripete fino allo sfinimento ‘cinque, sei azioni fisiche al massimo’ giocate in variazione, come un ipotetico alfabeto per arrivare all’assoluto. Non corrisponde abbastanza agli impulsi e alle critiche del maestro – una voce off che forse è solo un super io – ma neanche sa fermarsi. Anche a casa, nella pausa, è come se si riproducesse la sequenza di impulsi mentali della danza in scena, e la stanza diventa una coreografia di azioni quotidiane geometrizzate da impulsi meccanici.

Siamo ovviamente sempre al prima della prima, perché un debutto vero e proprio è impossibile, nella prigionia del perfezionismo e delle aspettative. E’ solo la lama sospesa del tormento.

Ma la sua è una danza? 

No. E’ una prigionia tra impulsi sonori, elettrici, luminosi, una prigionia geometrica per minimi epilettici. Appare inizialmente nel buio, solo volto e mani in luce, come se galleggiassero, con frenetiche torsioni. Poi i suoi movimenti sono condizionati e costretti dal perimetro di quadrati di luce sul pavimento, piccoli, poi crescenti fino a quasi tutto il palco. Ma sempre confini imvalicabili, tanto che per riporre i vestiti a lato, striscia e si tende. I movimenti sono sempre convulsi, o tensioni in verticale, verso un oltre, o gattonamenti spastici e animaleschi, raso terra, elettrici, a scatti. 

Talora poi giace riverso, mentre una macchina automatica lavatrice gli sbatte contro, come a volerlo lavare via.  

                 “Chiare fresche e dolci acque”  … è questa la sensazione che la scena deve 

                  dare. Gregorio .. Che succede ? Si tratta di immaterialità e concretezza, 

                  trasparenza e tenebre. Limiti e libertà. E’ questo il dramma che devi 

                  rappresentare. E questa lotta si conclude con un rifiuto, una fuga che è

                  movimento sul posto”

Queste sono le parole critiche e di incitamento che gli rivolge il maestro, con voce fuori campo. Chiare acque? Sembra un richiamo alla fluenza, e spesso echeggiano rumori di acqua o pioggia. Una dimensione impossibile per Gregor, Un impossibile richiamo alla vita e al femminile (Si noti che la sua ragazza al telefono sfotte e reputa insopportabile la sua pluridecennale ricerca artistica. Non lo capisce, si sente sola, minaccia di lasciarlo). Ma c’è anche la crocefissione dei contrari, o l’esortazione alla loro coesistenza, come nel barocco e nella mistica: limite e libertà. Il famoso limite che rende possibile la libertà dell’arte?

Si parla poi però anche di una fuga che è movimento sul posto. E qui? Dunque egli deve esprimere nell’arte appieno il proprio tormento: la fuga impossibile, il movimento sul posto, come l’allucinazione ginnica del tapis roulant. La paralisi esistenziale, la crocefissione (e insisto sulla crocefissione perché in qualche modo alla fine compare)

E Gleijeses (Gregor) è meraviglioso e patetico nell’inverare gestualmente questa fuga immobile, correndo in continuum ossessivo verso un fondale infuocato di sole – lui in penombra – e inscenando delle retromarce a colpo di frusta, come se fosse un elastico che si riavvolge sull’impossibile. 

E anche qui. 

E’ addirittura il titolo di un celeberrimo libro teorico di E.Barba, La corsa dei contrari. Nelle fasi aurorali dell’Odin questo riguardava tante cose. Per es la scena orizzontale policentrica, ma anche le tensioni contrapposte in termini però energetico esplosivi, sia nell’architettura delle azioni, sia all’interno dei propri impulsi corporei e/o vocali.

Ed è quello che Gleijeses fa qui, con la corsa, virando l’assunto a pirandelliana camera della tortura, ad implosione degli impulsi. Siamo alla marionetta metafisica di Kleist, o se si vuole a Act sans paroles, di Beckett, dove la dittatura degli impulsi impossibili si trasforma nella metafora dell’impotenza. E del resto, se in Beckett calavano corde dall’alto, a colpi di fischietto, per poi ritirarsi, qui spesso Gregor tende le braccia al cielo, per poi accartocciarsi tra l’insetto e la scimmia. E verso la fine, quando cresce lo scontro tra fuga e impossibile, dopo aver fatto scatenare quattro corde appese agli angoli, con le loro palle di ferro, ci si appende, crocefisso in controluce allo schermo bianco, cristico contro lo sdoppiamento del suo corpo in ombra proiettata, accasciato. E poi si alza e avanza tirando, come uno schiavo, sulle note di Casta diva come a dire il sacrificio d’amore. La fuga è impossibile. E la danza? Anche questa pare alienata.

A casa, accoccolato per terra davanti a una Tv per terra, vede una trasmissione sulla danza, e la mima. Più avanti abbraccerà da dietro la TV. Infine se la mette in testa, come se fosse lei in lui, va dietro lo schermo, ed in controluce su un giallo da tramonto, sbatte la testa a terra, con un rimbombo di campane. Sembra una scena da Ėjzenštejn.

E Kafka? È in filigrana. E nella voce del padre attore, che si lamenta che il figlio non lo chiama, ma che Gregor descrive come svalutativo della sua arte, paragonata a quella di un insetto. Insetto che poi (a memoria di La metamorfosi) compare in un sogno riferito alla terapeuta al telefono, dove lui appunto si trasforma in scarafaggio, non può andare in scena, e viene perseguitato dalla sorella. Ma soprattutto sta nei movimenti di scena, da insetto, e nell’afasia che lo coglie quando nell’eccesso di emozione, o frinisce da scarafaggio, scuotendo la testa, o grugnisce e ruggisce, in una trasformazione di rabbia che gli inabissa animalescamente la parola. E che dire. Anche qui, come non cogliere il magistero vocale che da Grotowski al terzo teatro barbiano fa della voce un portato gestuale dell’intero corpo (si pensi alla teoria dei risuonatori).

Così, tra silenzi, sirene telefoni campanelli tuoni, talora musica in crescendo, tra Rachmaninof e techno (Wolfang Voigt/Gas), nella persecuzione di mille impulsi, s’annega il pensier nostro, e naufraghiamo con Gregor nel mare del tormento del non senso sensuoso di una caccia impossibile.

E il pubblico, attonito e concentrato, ci mette un attimo per la lenta e crescente marea di applausi.

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Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa – Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa – drammaturgia e regia: Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley – con Lorenzo Gleijeses – suono e luci Mirto Baliani – voci off Eugenio Barba, Geppy Gleijeses, Maria Alberta Navello, Julia Varley – assistente alla regia Manolo Muoio – consulenza drammaturgica Chiara Lagani – spazio scenico Roberto Crea – videomaker FRANA Videoprod – Teatro India – Roma, 8-19 maggio 2024 – Già Triennale di Milano (2019)