La nomina, proclamata in un’atmosfera da pochade, potrebbe far slittare la promessa della gestione del Teatro Valle
Luca De Fusco è il nuovo direttore del Teatro Stabile di Roma. La decisione non è stata raggiunta all’unanimità dal Consiglio di amministrazione. I cinque membri, che dal 22 dicembre scorso si sono concentrati su 42 nominativi, riducendoli poi a una manciata di reali possibilità elettive, hanno premiato le capacità organizzative dell’attuale direttore artistico dello Stabile catanese, già numero uno a Napoli e in Veneto. La tensione dei giorni scorsi non s’è sciolta. Anzi, è montata talmente tanto che addirittura c’è chi da sinistra grida al golpe della destra. La politica invade il teatro più che mai. La nomina è stata annunciata da un Consiglio spaccato e incompleto. Il presidente Francesco Siciliano e Natalia Di Iorio, entrambi sostenitori, per diversi motivi, della parte comunale, infatti, hanno abbandonato la seduta, prima dell’ufficializzazione della notizia. Per protesta? Per dissidio? Per capriccio? Per dispetto? O forse, a quanto pare, proprio per far scoppiare il caso: perché resosi conto di essere in minoranza.
Dal 15 gennaio scorso i magnifici cinque già avevano dato ampia prova di non saper trovare un accordo unanime, rimandando la decisione a giovedì 18 e infine alla mattina di sabato 20. Quindi la conferma di cotanta discordia: anche quando si tratta di operare in favore del palcoscenico, i tentacoli delle autorità (che siano ministeriali, regionali o comunali) non azzardano a mollare la presa. Così i due rappresentanti del Comune hanno preso l’iniziativa (d’intesa, questa sì!) e hanno lasciato la riunione per presenziare alla loro personale conferenza stampa (non prevista) ed evitare di partecipare alla votazione definitiva. «Sarebbe paradossale e grave – oltre che, a mio parere, non legittimo – se gli altri membri del Consiglio di amministrazione arrivassero a una nomina che taglia fuori Roma dal Teatro che porta il suo nome», ha detto Siciliano ai giornalisti.
Il condizionale, usato dal presidente della Fondazione in conferenza, lascia subito intendere che la votazione non fosse ancora conclusa. Infatti, la nota ufficiale del Teatro di Roma riporta che il Consiglio «ha deliberato con il voto unanime dei Consiglieri presenti, la nomina di Luca De Fusco a Direttore generale della Fondazione per un quinquennio». Un voto unanime, ma a tre e non a cinque. Mentre da una parte il vicepresidente della Fondazione Danilo Del Gaizo, insieme con Marco Prosperini e Daniela Traldi, ultimava le procedure per l’annuncio preso a maggioranza (3 contro 2), i due fuggiaschi – un lui e una lei – si dileguavano alla chetichella per isolarsi in un’altra sala a incontrare la stampa avvertita all’ultimo momento. Sembrerebbe, in apparenza, una pochade alla Feydeau, ci sono tutti i presupposti: ma purtroppo non si tratta di un intrigo amoroso, è tutto vero, tutto reale. Tutta politica gestionale: soltanto vista con occhio un po’ teatrale.
Non si prevedono tempi sereni per De Fusco, il cui carattere pacato, però, sorretto da una lunga esperienza al comando di enti e festival teatrali, l’aiuterà certamente a sciogliere quei nodi già stretti sin da oggi dalla sponda avversa. Dalla sua parte è un plebiscito di consensi per le attitudini manageriali dimostrate in questi anni; le stesse che Siciliano contesta, sostenendo che si tratti di un artista e quindi poco adatto, in questo momento, alla direzione di Via de’ Barbieri.
Il primo nodo riguarda il teatro Valle. Di proprietà del Comune era già stato promesso tempo fa alla gestione dello Stabile, sotto l’egida della Fondazione del Teatro di Roma. Se i rappresentanti capitolini dovessero continuare a battere i pugni sul tavolo per l’insoddisfazione della nomina di De Fusco potrebbe essere plausibile che dal Campidoglio ritirino la parola data. E chi sa se poi, senza l’ausilio di una organizzazione teatrale nazionale, riusciranno a uscire dagli ingranaggi burocratici comunali. Sono soltanto capricci di una politica dispettosa che non giovano a nessuno; men che meno ai cittadini romani, checché ne dica Francesco Siciliano, il quale giustifica il suo gesto proponendo un irrazionale discorso economico: «Il Comune contribuisce con 6 milioni e mezzo alla dotazione della Fondazione mentre la Regione ha una quota – immutata negli ultimi 10 anni – di un milione 100 mila euro», dimenticando che ogni centesimo proviene dalle tasche dei contribuenti, che hanno soltanto il desiderio di vedere un buon prodotto finale in palcoscenico. Per il pubblico le beghe d’ufficio sono soltanto noiose baruffe d’interesse burocratico.
Il presidente della Fondazione, sulla fresca decisione presa dal Consiglio, ha detto che è stata «una scelta che taglia fuori la città» (ahia!) e che quindi «sarebbe una rottura del patto territoriale che è alla base di questo teatro». Una dichiarazione che, in verità, lascia un po’ perplessi: significa, in pratica, che qualsiasi altro nome non corrispondente a quello sostenuto dalle forze capitoline (leggi Onofrio Cutaia) sarebbe stato inopportuno per le aspettative comunali. Inoltre, non volendo prendere atto di una votazione a tutti gli effetti regolare, Siciliano arriva a citare incautamente le lotte tra Guelfi e Ghibellini: non si capisce se per fotografare l’atmosfera in cui s’è svolta la seduta consiliare o come esempio di democrazia. In entrambi casi, in un linguaggio ufficiale, ci sembra una sortita poco edificante. A meno che non si tratti di una rappresentazione medievale.
Siciliano, continuando la sua conferenza, dichiara ipotetiche anomalie nella decisione della nomina di De Fusco: «La sbrigatività di questo lavoro mi fa anche pensare che ci possano essere delle irregolarità e che questo possa aprire uno spazio a eventuali ricorsi da parte dei candidati non selezionati.» Una speranza o una reale possibilità? Insomma, una tipica elezione all’italiana, piena di clamori che sin da subito fanno molto rumore, ma che poi di solito si spengono nel nulla. Intanto, a confortare la platea già in apprensione, arriva l’unica certezza: il presidente della Fondazione non si dimetterà.
Dunque, a ben riflettere, «una scelta che taglia fuori la città» è un’affermazione assai grave, se a pronunciarla è il presidente della Fondazione del Teatro Stabile di Roma. Se ne intuisce certamente il significato affettuoso nei riguardi della Roma di un tempo, quella che vide protagonista il papà di Francesco Siciliano, ma poco s’adatta alle nuove indicazioni culturali di matrice europea. Mi par di capire che non si voglia ancora intendere che il Teatro Stabile di Roma, come Napoli e Torino e altri pochi (che De Fusco ben conosce), è stato promosso anni fa a teatro nazionale. Ora quindi ha il dovere di «svolgere un’attività teatrale di notevole prestigio nazionale e internazionale». Il Teatro Argentina non può più essere considerato un palcoscenico cittadino, non è più il «Teatro Stabile della Capitale», com’era stato battezzato ai tempi di Vito Pandolfi. È cresciuto. S’è evoluto. E adesso, appena libero dalla cinta del commissariamento, ha il dovere di camminare, passaporto in tasca, per le strade del mondo: un impegno che De Fusco dovrà affrontare con determinazione e perseveranza. Siciliano non si preoccupi per i cittadini, ché Roma, di teatri, ne ha in abbondanza, e anche storici. Basterebbe impossessarsene e riaprirli! Il Campidoglio vuole pensare alla cittadinanza? Bene. Riapra le porte del Teatro Valle, chiuse ormai da quattordici anni. L’Eliseo è in via Nazionale, proprio di fronte alla sede della Banca d’Italia: sembra un invito, si dia da fare.
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Foto di copertina: Il Teatro Argentina, sede della Fondazione dello Stabile di Roma