“Darwin inconsolabile”, l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro lascia il segno al Teatro India

Recitare nella realtà. Capita a tutti, almeno una volta nella vita. Si può arrivare anche a fingere di morire, solo per vedere che effetto scatena. Una pratica peraltro diffusa in natura, si chiama tanatosi ed è una strategia di sopravvivenza che mettono in atto diversi esseri viventi quando si sentono in pericolo di vita. Spesso anzi quasi sempre funziona, i predatori ci cascano.
Un comportamento che si è affinato in secoli, millenni di evoluzione delle specie: eccole, immancabili, le atmosfere darwiniane. Darwin inconsolabile è il titolo dell’ultima pièce firmata da Lucia Calamaro, drammaturga, attrice e regista di fama internazionale.

Andato in scena dall’11 al 23 gennaio al Teatro India, lo spettacolo narra una storia intorno all’evoluzione involuta dell’uomo postmoderno, soggiogato da frenesie e nevrosi, votato al consumismo compulsivo e incapace di abbeverarsi alla fonte delle emozioni e dei sentimenti. Aggressivi e assenti, distratti e sfatti sono i tre figli di una madre anziana, artista performativa che si sente sola e abbandonata ad un quotidiano dove le attenzioni sono solo meccaniche. Una premura dai toni ospedalieri che la bravissima Maria Grazia Sughi prova a rompere fingendosi morente. La tanatosi mette a nudo le manie e le fragili personalità di tre fratelli che a fatica riescono a comunicare tra loro. Così presi dai rispettivi mondi di disordine, ideologie e impegni.

C’è la primogenita ostetrica (Simona, interpretata da Simona Senzacqua) schiacciata dalla preoccupazione per il destino delle nuove generazioni, cuore dolce e ambientalista senza slogan. Viene poi il mezzano, Riccardo (Riccardo Goretti) maestro elementare di buone maniere ma imbranato e con la memoria corta. E infine la più piccola, Gioia (Gioia Salvatori), una figlia in simbiosi con la madre, perfomer-artista plastica, che indaga il prospettivismo amazzonico e le teorie dell’interspecie. Si dichiara più vicina al mondo vegetale che a quello animale e fa dormire la madre su un letto cosparso di verdura in putrefazione. Iconografia grottesca.

La scenografia è sospesa tra astratto e materia. La regia detta dialoghi nervosi e gestualità decise, silenzi imbarazzati e inesorabili.  La tensione è latente, la violenza del quotidiano emerge senza filtri. La lente di Lucia Calamaro è attenta ma non giudica. Mette in luce con empatia ed ironia le sfaccettature del nostro modus operandi. Ansia da prestazione, dipendenza dal consumo, siamo alla disperata ricerca di un quid che ci distingua dagli altri 7 miliardi di esseri umani. Ma è fuffa fatta di conversazioni da nulla cosmico. Le sovrastrutture, il filosofeggiare, il primitivismo… ma a che pro?

Inconsapevoli ci infiliamo in un labirinto privo di sostanza. Il tempo inesorabile trascorre e si perde la capacità di indirizzare le energie verso ciò che davvero conta. Le persone care, gli affetti, una mamma che per quanto stralunata e a tratti insopportabile è sempre una mamma. Che ama e protegge i suoi figli. Che accenna un tango perché si sente viva. Una mamma che potrebbe essere anche quel Pianeta Terra che invia moniti agli umani abitanti per chiedere più rispetto.

O forse questa mamma sta semplicemente eseguendo una performance artistica, con i figli comparse inconsapevoli. E’ il teatro della vita, palcoscenico dove tutti ci ritagliamo un ruolo. Per capire la realtà e inserirci in essa, per capire chi siamo e dove vogliamo arrivare.

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