Dall’unico all’unità. Intervista a Michele Di Mauro

Quello presente è l’unico tempo che il teatro conosce. A contare veramente – e questo vale per tutte le discipline artistiche – non è mai l’epoca in cui un testo o, più in generale, una storia sono state scritte o immaginate ma, piuttosto, la capacità di tradurre e fare del corpo dell’attore il traino temporale che rende presente, ovvero vivo, un fatto soltanto immaginato. Ed è proprio questo l’orizzonte verso cui ci siamo mossi per quest’intervista con Michele Di Mauro, attore di teatro, in scena fino al 6 aprile al Piccolo con “Romeo e Giulietta” per la regia di Mario Martone, protagonista del film “Non morirò di fame” e nel cast della serie SkyCall My Agent”.  

In che lettura del presente ti sei trovato – o ritrovato – lavorando con Mario Martone?

Credo che l’aspetto, in assoluto, più interessante della rilettura che Martone ha fatto di “Romeo e Giulietta” sia quella capacità di portare tutta la vicenda un po’ più vicino a noi, senza stravolgere, però, i versi shakespeariani. Una traduzione che ci avvicina alla storia, in cui anche il nostro lavoro attoriale è volto a mettere la vicenda in una specie di primo piano più evidente, soprattutto nei termini più concreti del linguaggio. Il rapporto con i sentimenti, l’amore di Giulietta e Romeo e la costruzione del loro mondo, tutto passa attraverso il loro linguaggio che però, in certi frangenti, finisce per essere schiacciato da un altro linguaggio molto più basso e ‘terra terra’, a volte persino molto volgare: quello degli adulti, che sono soprattutto i Capuleti, che è soprattutto quello di Capuleti padre. E, in qualche modo, questo aspetto implica anche una riflessione più generale rispetto a che cosa raccontiamo: continuiamo a raccontare che c’è ottusità, cecità, padre-padronanza, in un mondo in cui nemmeno la forza devastante e travolgente dell’amore può riuscire da sola a trasformare le cose, perché, in ogni caso, la tragedia continuerà sempre a finire nello stesso modo.

A che luoghi dà vita questa traduzione registica di “Romeo e Giulietta”?

In qualche modo più che una scenografia quella di “Romeo e Giulietta” è un’installazione. Quando mi chiedono cosa ne penso mi immagino sempre un’installazione come quelle di Damien Hirst, perché in questa ‘scena installativa’ di Margherita Palli  –  in cui gli alberi genealogici delle due fazioni opposte, in qualche modo, s’intrecciano e rimangono, se vogliamo, soffocati come reperti archeologici  –  noi ci muoviamo un po’ come ‘scimmiette’ viste da lontano, come un’umanità desolata. Non ci sono le stanze e non ci sono i luoghi in senso tradizionale: c’è soltanto un soprapiù ‘orizzontale’ – e un ‘sotto’, basso e paludoso.

Qual è il tuo rapporto con il tempo (penso, ad esempio, a “Le sedie” di Ionesco, regia di Valerio Binasco) e con la giovinezza; e in che modo questo rapporto è intervenuto in Capuleti padre?

Qui siamo, a differenza de “Le sedie” in cui Federica Fracassi e io eravamo assoluti protagonisti, in uno spettacolo sì corale ma che, in fondo, si chiama pur sempre “Romeo e Giulietta”. Uno spettacolo in cui siamo chiamati a fare la nostra parte all’interno di un co-protagonismo di personaggi rilevanti, ma non così di primo piano, e per questo sono conscio di essere chiamato a fare un lavoro che va ‘tirato fuori con i denti’. Per esempio, di recente ho rivisto il film di Baz Luhrmann, in cui il personaggio del padre Capuleti è interpretato da Paul Sorvino, e in cui ho intravisto diversi spunti interessanti, tra cui la possibilità di metterci del buono in questo personaggio. Spunti che poi ho ritrovato nel lavoro, anche in virtù di quest’idea di un padre un po’ più vecchio di quello che dovrebbe essere e con una madre molto più giovane (Lucrezia Guidone). Un uomo attraversato, quindi, dall’assillo dell’età che avanza, tipico soprattutto di quei ceti sociali altolocati in cui questo diventa un problema esponenziale. Non a caso abbiamo dei paragoni illustri di questo fenomeno nel mondo della politica o della imprenditorialità, in cui uomini orrendi e orribili passano, in maniera depressiva, attraverso periodi di post-divertimento sfrenato.

In che senso ti definisci ‘operaio dello spettacolo’?

La parola ‘operaio’ deriva dal concetto di opera, in un senso di artigianalità e di unicità dell’unico che poi diventa unità nel momento in cui gli unici si mettono insieme: perché l’arte è sempre, in qualche modo, comunità, e il teatro soprattutto. L’operaio è quella piccola parte del tutto assolutamente fondamentale, per questo parlo di unità come insieme dei singoli; è un discorso persino un po’ politico…

Passiamo al cinema e al film di cui sei protagonista: “Non morirò di fame” con la regia di Umberto Spinazzola. Ad oggi viviamo nell’epoca ingegneristica della resilienza, ma quali diverse implicazioni artistiche e sociali risultano dal termine ‘recupero’ che spesso hai individuato come cardine della tua interpretazione del film?

Nel film ci sono due tematiche che viaggiano parallele. Da una parte, quella che riguarda il cibo e lo spreco alimentare e, dall’altra, la tematica dei sentimenti e dei rapporti interpersonali e, nel caso di Pier (l’ex chef di successo che interpreto), di una famiglia distrutta a causa della sua stupidità, a seguito della morte della moglie e della presenza di una figlia di cui lui, in qualche modo, non ha saputo né prendersi cura né cogliere la meraviglia dell’esistere. E quindi le due tematiche si toccano da vicino, proprio in virtù di questo recupero della materia da una parte e, dall’altra, del sentimento, ma tutto gravita intorno a quei momenti e occasioni in cui, nonostante tutto, aprire gli occhi – e cogliere l’occasione per il recupero – è possibile. L’aspetto politico di “Non morirò di fame” sta, soprattutto, nella politica dei rapporti tra gli individui, che poi si allarga facendosi comunità fino alla sua evoluzione più estesamente sociale. Ognuno di noi, se riesce a trovare la propria collocazione e il proprio equilibrio nella sua micro-comunità, si può rendere davvero parte – non di una rivoluzione ma quantomeno  di quel tentativo di rimettere a posto le cose.

In una recente intervista hai paragonato “Call my Agent” a un luna park, come mai?

Un luna park nel senso di quella sorta di stupore e felicità fanciullesca che si hanno quando si parla di un parco divertimenti: è, in fondo, un altro modo per guardare al mondo degli adulti. Ed è veramente un grande parco divertimenti quello di “Call my Agent”, in cui si scopre qualche cosa di più dell’industria cinematografica e televisiva, quasi come in un grande luna park che va da Fellini a Luhrmann, fino ai nostri giorni.