Dal baratro fuligginoso della verità

La crudezza del ritratto sociale da Gor’kij a Popolizio

Lo spazio si estende, ampio, disadorno, tanto stipato da affollare lo sguardo: inabitabile!, verrebbe da dire- visibile è lo strato di fuliggine che sembra ricoprire ogni cosa- eppure – osserviamo- gremito di personaggi che rumorosamente si accingono ad investire la scena.

Al Teatro Argentina L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij per la regia di Massimo Popolizio- foto di Claudia Pajewski

Si tramuta il palco del Teatro Argentina per lasciare spazio a ”L’albergo dei poveri” dramma corale di Maksim Gor’kij esordito a Mosca nel 1902 e ricordato anche come “I bassifondi” o “Il dormitorio”.

Se il suo ultimo nome fu opera di Giorgio Strehler che volle così celebrare, il 14 maggio 1947, l’inaugurazione del Piccolo Teatro di Milano dopo la guerra; a riproporlo a Roma dal 9 febbraio al 3 marzo è Massimo Popolizio a partire dalla riduzione teatrale di Emanuele Trevi.

I miei disgraziati! I miei buoni a nulla! I miei perduti!

Un uomo e una donna si rincorrono, si apostrofano sguaiatamente; altri due gridano tra di loro contendendosi un libro; se ne sta riverso a terra un ubriaco, e mentre la malata geme sul letto fra spasmi e colpi di tosse, il pellicciaio lavora ossessivo, travolto dal suo stacanovismo.

Tutti, nessuno escluso, abitano quel luogo derelitto, se ne contendono gli spazi, ne inalano le polveri e la sofferenza; una sofferenza che li permea, li risucchia al punto da essere con loro un tutt’uno.

Pensavo sarei morto con le mani gialle! – lamenta il pellicciaio. Un tempo tingeva stoffe, ma un giorno vita e bottega gli caracollarono addosso. E poi c’è Pepel, il ladro sognatore, perseguitato dagli incubi, che da bambino andava nel bosco per cercare gli spiriti; e ancora una donna che legge e piange, che vive nelle pagine dell’amore fatale e quando torna alla realtà sente di essere superflua, sola, e il musicista che vive nell’ubriachezza per attutire il dolore, per dimenticarlo.

I miei disgraziati! I miei buoni a nulla! I miei perduti! – così li esorta l’affittuario tra il ghigno e la compassione, li esorta perché perduto lo è anche lui, tutti lo sono lì nel bassifondo, dove la luce non si vede, per la grande pressa che è l’esistenza.

Tutto è angusto, anche la ricerca della verità, soffocata sul nascere, atrofizzata, perché conoscere la propria condizione non è altro che un altro modo per sbattere contro il dolore.

In un mondo avvolto dalle tenebre

Tanto terreni, fangosi, quanto surreali i personaggi si muovono nel medesimo spazio, in un’ arena circoscritta suscettibile però a modularsi articolandosi pericolosamente sulle traiettorie della disperazione.

Crocevia di frustrazioni senza fondale, l’albergo diviene la covo precario e in-accogliente che di continuo si vorrebbe abbandonare ma che non lascia alternativa ai suoi abitanti.

Ad alimentare l’idea sotterranea che spinge a concepire quel luogo come nicchia simbolica, è l’incursione di una figura straniera, un pellegrino (Massimo Popolizio) il cui arrivo sembra porsi come interruzione, svolta inattesa nel ritmo della narrazione. Giunge da un luogo imprecisato, con una radiolina e un bastone, la sua sarà una sosta temporanea, un luogo di passaggio.

Ma tu chi sei, pellegrino della specie più misera?

Peculiarità del nuovo personaggio è quella di porsi come figura di frontiera tra entità natura cristologica – che accoglie gli afflitti, fautrice di nuova speranza di fronte alla miseria di quel microcosmo; e suo irriducibile rovesciamento. Non crede nella verità- una verità che in qualche modo possa dissotterrare il dolore- ma alimenta l’illusione come unico palliativo di fronte alla sofferenza.

Non credi che ci sia un abisso (…)? Dio esiste?– lo esorta Pepel, ma lui non sa o forse non vuole rispondere. La sua premura conforta la malata sul letto di morte, accende lo spirito del ladro, interrompendo così una vita abbandonata alla predestinazione. Eppure il suo mezzo è l’illusione: per quelli come te– lo provoca il furfante- la verità è una mannaia.

È impossibile afferrare il mondo

I meccanismi dell’esistenza cigolano sospinti da dinamiche spesso imperscrutabili, così se la luce della speranza, così fatua e pericolante si accinge a rompere l’oscurità, a contrastare il suo triste equilibrio, succede talvolta che il buio divenga ancora più forte.

Il saggio pellegrino, quella figura liminare su cui continuerà fino all’ultimo ad aleggiare il mistero, può dirsi nel corso della narrazione il primario fautore di questa dinamica. È lui che si arrischia nel suggerire all’attore l’esistenza di un paese dei giusti, ad esortare il ladro a combattere per il suo amore, a rassicurare la malata dandole la certezza che il paradiso la sta aspettando. Ci sono menzogne così consolanti!

Al Teatro Argentina L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij per la regia di Massimo Popolizio- foto di Claudia Pajewski

Ma la fine sembra ribaltare le premesse, la scorza di sporcizia, di angustia, di ingiustizia è forse più difficile da scardinare. E allora la questione rimane la stessa, quanto la verità davvero possa coesistere con la speranza, se la speranza possa sconfiggere il buio o ancora, se il buio sia davvero così inscalfibile, fino a che punto l’uomo sia disposto all’illusione.

Non sono lacrime, è succo. Ho un peso nel cuore e esce il succo.

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L’albergo dei poveri – uno spettacolo di Massimo Popolizio – tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi – con Massimo Popolizio e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito, Michele Nani, Giovanni Battaglia, Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Martin Chishimba, Silvia Pietta, Gabriele Brunelli, Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio, Luca Carbone, Carolina Ellero, Zoe Zolferino – Teatro Argentina dal 9 febbraio al 3 marzo 2024