Cubi, reti, fantasmagorie e dissolvenze: la danza del sogno

Assistere ad uno spettacolo nelle carceri garantisce un surplus di emozioni, per una serie comprensibile di motivi, di ordine sociologico politico ed umano. E potrebbe fare velo al giudizio artistico

Non è tuttavia il caso di La formula di Grubler (Roma – Teatro di Rebibbia N.C. – 5 luglio 2023), che pur in una sua purezza e quasi ingenuità di fondo, di qualità artistiche ne esibisce a piene mani.

Prima tuttavia qualche informazione. 

Lo spettacolo è il primo di un cartellone che tra luglio e dicembre 2023 si ripropone di celebrare i venti anni della fondazione del Teatro Libero di Rebibbia a cura de La Ribalta – Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, diretta da Laura Andreini e Fabio Cavalli. Sede principale è l’Auditorium del carcere (340 posti), ed in questi venti anni 40 sono state le produzioni teatrali e cinematografiche, tra le quali spicca il successo internazionale di Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

Tutto bene. 

Solo un po’ ancora stonano – in questo paesaggio positivo, dove Rebibbia si inserisce in una vasta cordata in atto da anni di carcere in teatro,

e arte, resilienza, terapia sposano il dettato costituzionale ( famosa tra le altre la compagnia di Punzo, a Volterra) – stonano una certa rigidità dell’accoglienza della stampa, e le lungaggini burocratiche per poter ottenere le foto di scena. Non è chiaro a protezione di cosa.

Ma torniamo in scena. 

Di cosa parla il testo della Andreini, e a chi parla ?

Il pretesto – metaforico –  è la formula del matematico Grubler, che definisce quanti sono i gradi della libertà di movimento di un corpo nello spazio. 

Capire la formula, possederla, è la chiave per accedere a sogno e libertà ? 

E’ quello che si chiede il vasto gruppo di persone che – in seguito a simbolico naufragio – si trova ad abitare un’isola-carcere, deserto di pietra e vento, dove crescono solo lenticchie, patate, fave, e la terra si sfarina arida. Parlano del professore, che deve ricostruire la formula perduta, e di come gettare le reti a mare, che lungi dal produrre effetti, risalgono vuote.

L’isola è inoltre, secondo la leggenda, tormentata dai frati tempestari, che cagano sassi, e si narra anche di uno che sarebbe scomparso, forse volato via. 

Il gruppo oscilla tra pessimismo disperato e una capacità di sogno che, al minimo è fabulazione che camuffa il reale, e al suo culmine, speranza, speranza di poter volare via, grazie alla formula. 

Libertà, sogno. 

Certo lo spettacolo parla della condizione dei detenuti che lo recitano, ma più in generale parla di quel carcere della vita dove per tutti l’alternativa è tra un realismo arido e sabbioso e la capacità di vedere secondo un’altra prospettiva. Si potrebbe dire, libero è chi libero fa, chi sa danzare.

E al di là delle doti recitative più o meno grandi di tutti (chi alla sua prima, chi già esperto) proprio questa è la cifra stilistica dello spettacolo, quella di una danzante fantasmagoria corale, a onde ed epifanie, sostenuta da musiche (ora ossessive ora lievi), e da giochi di luce che trasformano gli oggetti nel buio, con effetti di fosforescenza.

La scena è tutta in nero, con una parete di fondo a listelli di telo, da cui emergono e in cui si dissolvono persone e cose. Ma soprattutto dominano, polifunzionali, una serie di cubi neri, che a ogni cambio di scena, al buio, vengono spostati a vista da attori ora lenti nella fatica ora roteanti con movenze di danza, ombre di una continua metamorfosi.

Splendido, per esempio, in questo moto ondoso generale, è quando una serie di teli di plastica trasparente (che sempre qui sono le reti per la pesca), nel buio, illuminati di blu, si alzano come onde sognanti nel buio, prima di posarsi nella piena luce del chiacchiericcio corale del gruppo. 

E suggestivo quando nel dissolversi il sognatore tra le pieghe della parete di fondo 

          “Prima o poi prenderò il volo, diventerò leggero, sparirò

si trascina dietro uno di questi teli, che diventa come una coda di pavone che svanisce nel nero.

Bella anche l’azione fisica del gruppo in fila per la lezione di volo, dove ognuno oscilla in equilibrio su un disco. E’ il tremito dell’emozione, nel tentativo di aderire alla pedagogia della speranza e dell’interpretazione, il cui succo è che per volare bisogna vincere il peso, ma dove il trucco sta nel domandarsi cosa si debba intendere per peso.

E infatti, quando ritroveranno un foglio creduto perso del professore (firmato Einstein) la frase chiave è la seguente. Il calabrone ha un grosso ventre, ed ali inadatte al volo. Ma non lo sa. Per questo vola.

Sembra una terapia cognitivista di riarrangiamento del pensiero. 

La realtà è che non c’è una formula. Si vola e basta. 

Così il sognatore torna in scena, urlando commosso che volando ha riconosciuto i suoi, e si è sentito chiamare. 

“Non smettete di chiamarmi”, urla disperato. Certo, perché per sognare abbiamo bisogno della collaborazione di tutti.

Se verso la fine domina il pathos, ed in generale è così in prevalenza, non manca un continuo mormorio narrativo di gruppo, un confronto corale appunto, uniti nel destino. Un vitalismo popolare, da piazza. Il cui culmine comico è la napoletanata dell’esperto che dà lezioni di vita a ‘cucciolo’, uno dei più giovani del gruppo (nella realtà e nella finzione). 

Il pezzo è comico brillante, e probabilmente il protagonista (bravissimo, ilare ed energetico, surreale) è uno dei più esperti. 

La gag è semplice. Messi tre cubi in avanscena, il pescatore fa la sua urlata da imbonitore al mercato.

Orate, spigole. Venite. Guardate che occhio vivo!”

Al fargli notare il giovane che i cubi sono vuoti gli risponde che è perché non sa vedere. Ha l’occhio tecnico, non magico. Così si rovina la concorrenza. E poi si scatena in un surreale ed accelerato gioco delle tre carte fatto coi pesci, che mima di spostare frenetico, per fargli indovinare in quale cubo sono. “Aragosta, cernia, sogliola, cernia…”

In fondo sognare è anche l’eterna arte dell’arrangiarsi e dell’imbroglio, il saper fare del nulla un circo.

Insomma: un testo intelligente, semplice, quasi ingenuo nell’assunto, ma come dev’essere – perché lo scopo è la poesia dell’umano – e innervato di fisicità e passione, con un flusso senza incrinature.

E il calore del pubblico si fa marea.

La formula di Grubler – Drammaturgia e regia di Laura Andreini – con i Detenuti-attori di Rebibbia Giuditta Cambieri Regista assistente  – Francesca Di Giuseppe Collaborazione alla drammaturgia – Paola Pischedda Costumi  – Marco Catalucci Disegno luci – Alessandro De Nino Organizzazione – Fabio Cavalli Direzione di progetto