Cosmogonia di un amore fantasma: “Le ferite del vento“ in scena a Roma

Ci si libera  mai degli errori dei padri ? E se hanno passato la vita a fuggire da noi,  ancor prima a (ri)fuggire se stessi, negandoci l’identità di figli? È davvero loro, la colpa?

Superati i quaranta, possiamo spostare indietro le lancette dell’orologio? Che fine fa, il tempo perduto? 

In scena a Roma, Sala Umberto, dal 16 al 19 marzo, “Le ferite del vento”, di Alessio Pizzech, tratto dalla preziosa drammaturgia di Juan Carlos Rubio. 

Musica onirica . “Ho cominciato  a conoscere mio padre il giorno  che è morto. Un po’ tardi, vero?”. Un uomo in uno spazio rarefatto, lacera il velo di cellophane che adorna gli oggetti i tavoli le sedie. È David, il figlio. In famiglia era l’ultimo dei fratelli. Gli è stata affidata la spartizione della eredità paterna . Da allora confida di poter “trovare un ritaglio in disordine, sotto il quale riaffiorasse l’uomo. Le emozioni, gli amori. Suo padre Raffaele”. Dall’altro lato della scena, di spalle, una silhouette corpulenta, maschile, dechirichiana ; sulle prime indecifrabile. David come un ladro scaglia il martello contro la cassaforte e rinviene la mole di lettere, quasi fosse un tesoro dissotterrato, uno scrigno che si anima col trillo di un carillon. “Hanno tutte il rango di speciali, ma senza mittente”, asserisce. Il padre si rivolgeva ad un interlocutore anonimo, “Giovanni”, che scatenava in lui sentimenti così diversi dal solito. E qui il mistero si infittisce. David, l’intenso Matteo Taranto, è uno Sherlock nerovestito, giovanilistico, nei ranghi di un asciutto naturalismo. E non è il padre che fa il suo ingresso repentino, ma l’anziano  amante vestito di rosso, uno straordinariamente autentico, potente Cochi Ponzoni. Si contempla allo specchio puntando il dito, nevrastenico. I due, uno accanto all’altra, inscenano la cosmogonia drammatica di un “amore fantasma”: David trasmuta in satellite da cui irraggiano in ennesime rifrazioni del reale una tessitura di aneddoti, vezzi, narrazioni, storie di vita vissuta. Tutte di Giovanni. Ma ricompongono il puzzle dell’identità di Raffaele. Come un collage post mortem.

David, con evidenti echi Koltèsiani, ab initio immortalato in un aldilà dei sentimenti, sulla sinistra, è un uomo di cellophane, un  groviglio di bile, rancore e nervi. Sembra già morto, senza vita senza pathos senza sentimenti. Finché l’altro lato della scena, simile ad una natura morta, si anima. Precipitiamo in una dimora che non è casa, poichè ad abitarla non c’è l’amore dell’altro – “non ho mai visto i miei genitori amarsi”, spiega David, “e non voglio fare la stessa fine: non credo nella coppia” . Nella vita tranquilla di lui,  quarantenne architetto senza legami, ingannevole e razionale, penetra e si insinua come un fiume carsico un elemento di disturbo, che cambia il ritmo: l’amante anziano.

Che tra le mura domestiche finalmente palesa la propria eccentricità, mentre si ravviva i capelli, invoca il nome del suo amore, perde la calma. Sorride innanzi allo specchio come rivolgendosi alla  platea . “La vita si divide tra il club di chi piange per ogni cosa e chi per nessuna. L’amore somiglia più a una lotteria, che alla matematica”

D’ora in avanti il dramma prosegue con una leggerezza che ferisce; la musica incalza, le tende arieggiano ed una cascata di petali scende in proscenio e sul palco . E i due svaniscono . Da blu la luce si fa rossa.Il gioco tra amante lascivo e figlio – testimone, forse agiografo inconsapevole, si fa serio.

Cochi Ponzoni, attore cult nell’immaginario collettivo , rivela una particolare finezza e sensibilità drammatica, dá corpo e voce ad un maudit à la Tennessee Williams, del quale è impossibile non restare invaghiti. Suscitando il visibilio, l’affetto  e l’interesse  del pubblico. Seduce col caldo disincanto da iconoclasta , verve da battutista, umor nero da sentimentale intransigente. Ma anche pathos e purezza. Crea una autentica dimensione di realtà .

Sono una reliquia, sussurra il vecchio; hai trovato il tuo gatto, domanda il figlio. È un gatto profugo, risponde il vecchio. Lo spazio scenico è archetipale e ricrea  ad un tempo domus freudiana, labirinto, viaggio  mentale, allegoria dell’esistenza. Dittico di una vitalità interrotta ove i vivi muoiono la vita e i morti, coadiuvati dagli anziani superstiti,  forniscono gli strumenti per imparare a vivere, o almeno tentare.  

D’altronde il valore del tempo è emotivo e non cronologico, si connota proustianamente, bolañianamente.

L’iniziale ricerca del padre si tramuta in ricerca scheptica ed intimista del sè filiale. Arte maieutica praticata dall’ amante-antagonista.

David è il figlio ultraquarantenne in cerca di approvazione; il suo tempo  è letargico e costante, scandito con  schiacciante lentezza , da impostore cristallizzato, furtivo, mentre fruga nella vita precedente, se non parallela, del padre.

La passa ai raggi ics, ostaggio della vecchia casa di famiglia alto borghese ed asettica, terra di bombardamenti emotivi. Col sopraggiungere di Giovanni il ritmo si fa invece serrato ed il moto inarrestabile. Ed allora tutto cambia, inizia. È questa una stagione di genitorialità sofferta, tradita, fraintesa, di stanze popolate di solitudini umane che ci fa vibrare ed interessa larga parte del pubblico .

Volti di un medesimo prisma destinati a non incontrarsi mai se non in un altrove, un altro tempo e uno spazio diverso: quello scenico. Ove tutto diviene possibile. 

Soprattutto nella famiglia postmoderna, che si è disgregata se non disintegrata nella sua connotazione tradizionale . L’omosessualità diviene un formidabile terreno di incontro-scontro. Socioculturale, relazionale, persino linguistico . 

David si riconcilia con Giovanni, rivelatosi anche  una componente simbolica della psiche e dell’Anima del defunto Raffaele . Quel tempo, dapprima negato, si dilata e per osmosi colma la scena sovrastando  il buio, la luce da blu si fa rossa, una  cascata di petali, Mina in sottofondo ; culmina nel fruscio incalzante delle tende mosse dal vento : il ritorno alla vita  . 

Tutto muta. Il protagonista  David muta sin dalle scarpe, sin negli abiti di scena: non più ladro, ma  ragazzo vestito da ragazzo, “informale”, gli fa eco Giovanni. La trasformazione dei personaggi promana dunque dalla partitura  scenica , dal crescendo dei dialoghi, dal corpo a corpo tra i due attori, quasi fisico, dovuto alle liti e ai continui scontri esistenziali ed emotivi; per riverberarsi dunque  nella luminotecnica e nella scenografia. Si dilata il tempo  ed esordisce la stagione dell’amore, della vita, della consapevolezza, della scoperta. C’è un tempo per raccogliere, anche se si era seminato invano, ed è il presente : tempo  per capire, sentire.

E finalmente ritrovarlo, questo padre che aveva smarrito se stesso prima ancora  di tentare di conoscersi e accettarsi. Chè  ti aveva cresciuto senza renderti libero, non essendolo egli stesso. Pensi sarebbe stato meglio non averlo mai avuto, un padre. Ma sbagli, lo  scoprirai a tue spese, se non sei del tutto idiota e “senza un problema serio nella vita”.

E le ferite che ti lecchi ogni giorno, o le ignori e finiscono per logorarti e spegnerti del tutto e metterti “sotto cellofan”, come il divano e i mobili del salotto. Finisci morto, anestetizzato,  sotto formaldeide . Oppure le affronti e sono parte dell’iter di liberazione. Ti emancipano . E se lo guardi bene,  Giovanni ,  mentre si dimena voluttuoso  allo specchio, così com’è, senza curarsi di apparir diverso –  vecchio istrionico ed ossessivo , un po’   flaneur, urticante, con un passato di penuria e tribolazioni – è in realtà  lui, Raffaele che rivedi nello specchio. Le parole d’amore di Giovanni riecheggiano quelle di Raffaele. Se nelle lettere vergate di suo pugno non c’è traccia dell’uomo, è nel carteggio “fantasma” con Giovanni, non perduto ma  ritrovato profanando come un feretro o una tomba impetrata la cassaforte, che David ritrova il padre . Il mistery si tramuta in seduta psicoanalitica, psicodramma; i ruoli si capovolgono, disorientando lo spettatore. Se prima era il figlio a pretendere le lettere dell’amante, ora è l’amante che lo scuote, coartandolo alla lettura, agendo in offensiva. Rivela la grande povertà materiale in cui versa, poi l’interroga in un confronto serrato, indaga sui suoi trascorsi sentimentali,  lo pungola sulla totale assenza di fiducia in se stesso e sulla scelta di non lasciare la casa dei suoi. E David finalmente cede, capitola, si prostra e affettuosamente si stringe alle ginocchia di Giovanni. Dapprima si schermisce, poi con onestà fanciullesca confessa l’insospettabile. Ed è allora che incontra la totale empatia, il totale piano di ascolto di Giovanni,che si scusa di non poterlo aiutare e lo invita a perdonare il padre. E anche l’amour fou tra i due si rivela esser stato un perverso gioco al massacro,  inventato da Giovanni ma poi alimentato con costante spietatezza  da Raffaele. David non sa accettarlo, non ne ha gli strumenti . Finchè il miracolo si compie. Negli occhi di Giovanni, David ritrova se stesso e finalmente il padre defunto- eternamente  assente . Lo vede per la prima volta, in questa pièce che somiglia ad un miraggio fassbinderiano, un viaggio onirico pregno di drammaticità ma dotato della semplicità cristallina eppur densa che contraddistingue la regia di Alessio Pizzech, ed è prerogativa dei grandi. 

Il regista, di formazione tezziana, vanta infatti una biografia da  enfant prodige, muovendosi tra teatro di prosa e teatro d’opera . Il dandy Giovanni- Ponzoni salva David-Taranto,lo guarisce dalla patologia paterna, gli infonde la forza necessaria ad infrangere  la parete di cristallo che ingabbia ciascuno di noi, e si nutre di paura e viltà. Chè se il vento diventa uragano e brucia, solo se ti lacera il petto e diviene ferita , allora avrai saputo di aver vissuto . “Per amare e accettare tuo padre, basta sapere che è il tuo e non di un altro”, chiosa David . “E questo era davvero il momento giusto per conoscerlo”. Dicono alcuni, parafrasando Shakespeare, che non si diventa mai pienamente adulti se non ci si libera delle vite dei padri, dei loro accidenti e problemi irrisolti , delle loro idiosincrasie. Soprattutto, del rancore verso di loro.

Le ferite del vento

di Juan Carlos Rubio con Cochi Ponzoni, Matteo Taranto

regia Alessio Pizzech

scene Alessandro Chiti

costumi Carla Ricotti