Corona inglese, teatro vivente

La scomparsa della Regina Elisabetta II ha mosso un turbinio di articoli, commenti e messaggi. Non dipende soltanto dai suoi settant’anni di regno, record assoluto, o da come li ha vissuti, sempre accompagnata dalla sua personalità inscalfibile, dalla sua serietà politica e da una naturale, spontanea regalità; dipende soprattutto dall’appartenenza alla Corona inglese, che possiede una sua indiscussa e intrigante teatralità. A chiunque abbia l’anima da bardo piace sedersi accanto al fuoco ad ascoltare storie di re e di regine. E le storie della Corona inglese non deludono mai: meriterebbero sempre palcoscenici, abiti di scena e voci permeabili alla loro intensità. Il dramma le impregna anche quando nascono commedia. È tutto così meravigliosamente melodrammatico, nei castelli britannici! Perdura nei secoli un’aura vagamente shakespeariana che mostra tutti loro come dèi umanizzati: da un lato rivestono un ruolo politico, chi più chi meno, e, dall’altro aleggiano nelle loro dimore, tra opere d’arte e gioielli inestimabili, e si muovono in un mondo fatto anche di intrighi, di ombre, di amori non sempre forieri di gioie coniugali. Sono personaggi amabilmente imperfetti all’interno di una perfetta pagina di letteratura.

Lasciando da parte la vita di Elisabetta II, dei suoi figli e dei suoi nipoti, di cui hanno parlato e continuano a parlare in tanti, preferisco ricordare un episodio della sua infanzia, quando non era ancora Regina, perché ben descrive la sua personalità attraverso “la battuta perfetta”, a proposito di teatro; una battuta che, caratterialmente, la colloca all’interno del suo passato, tra le sue radici, alcune vicine alla sua anima, altre lontane anni luce da essa, tutte, comunque, intessute di drammi e passioni, di affascinanti storie da palcoscenico.

Correva l’anno 1936. Morto nonno Giorgio V, il trono era andato al fratello più grande di suo padre, lo zio Edoardo VIII, familiarmente chiamato David, il quale, però, si era perdutamente innamorato di un’attrice americana con due divorzi alle spalle, tale Wallies Warfield, nota con il cognome del secondo marito, Simpson. Inutile dire che vigeva un divieto assoluto di sposarla e renderla Regina consorte. Fu così che Edoardo VIII, sul finire dello stesso anno della sua incoronazione, pur di vivere pienamente il suo amore con questa donna bruttina, a dirla tutta, ma dagli occhi di un blu intenso e dalla personalità titanica, decise di abdicare (e poi diciamo che gli inglesi non sanno essere romantici!) e lo scettro passò al secondogenito, salito al trono come Giorgio VI, il padre di Elisabetta per l’appunto, uomo di pregio, di educazione militare e di lodevole modestia. Il giorno dell’abdicazione del fratello confidò a lord Mountbatten: «Io non avrei mai voluto che questo accadesse. Sono del tutto impreparato. David si era allenato per tutta la vita. Io non ho mai nemmeno visto un documento di Stato. Sono solo un ufficiale di marina». In realtà, nel corso della sua breve vita, si trovò a fronteggiare un momento storico altamente drammatico, sfociato nella Seconda Guerra Mondiale, e lo fece in modo ammirevole, accanto alla sua Regina consorte Elisabetta di Bowes-Lyon, a tutti nota come Regina madre.

L’innamorato Edoardo, col “solo” titolo di duca e il “solo” conseguente vitalizio, sposò la sua Wally in Francia, nel castello di Candé, dove lei sfoggiò un abito dello stesso colore dei suoi occhi, colore che in Francia venne da quel momento definito “bleu Wallis”, e trascorse tutta la vita con lei.

Ebbene, un giorno di quel 1936 Wally vide Elisabetta e la salutò con il nomignolo che le era stato dato in famiglia, Lilibeth. Elisabetta, dall’alto dei suoi dieci anni, la guardò con serietà e le disse: «Per lei, signora, io non sono Lilibeth; sono la Principessa Elisabetta». Neanche Shakespeare avrebbe potuto scrivere parole di tanto effetto.

Tutta il nonno, verrebbe da dire.

Giorgio V, infatti, era un uomo di grande carattere e serietà, che affrontò con coraggio la Prima Guerra Mondiale, recandosi spesso sulle linee di guerra e non impedendo ai suoi stessi figli di parteciparvi. Fu lui che cambiò il nome della stirpe reale in Windsor, abbandonando quel Sassonia-Coburgo-Gotha che testimoniava il legame di sangue con la Germania nemica. Dopo la parentesi un po’ gaudente di suo padre Edoardo VII, Giorgio V riportò il regno, per quanto possibile, al rigore vittoriano. Eh, sì, perché la regina Vittoria era la nonna di Giorgio V, ossia la trisnonna di Elisabetta. Vittoria fu una regina tra le più famose della storia britannica. Un sublime personaggio teatrale. Dopo un’adolescenziale simpatia per il suo Primo Ministro, trovò nel cugino sassone Alberto la sua anima gemella, al punto da trasformarlo in un “re senza corona”, demandando a lui le incombenze politiche in modo da potersi dedicare pienamente a crescere i loro nove figli. Il suo amato Alberto, però, morì giovane e Vittoria avvolse se stessa in un lutto sconsolato, che alcuni percepirono come il segno di un’iniziale follia, simile a quella di suo nonno Giorgio III, “Mad George” per intenderci. Niente follia, ovviamente; solo dolore, superato il quale Vittoria regnò con mano salda, tratteggiando con rigore, moralità e sobria eleganza la società del suo tempo, seppur sempre caratterizzata da un considerevole iato tra il popolo e l’aristocrazia.

In realtà, il nonno di Elisabetta, Giorgio V, non era designato a diventare re, in quanto secondogenito di Edoardo VII, ma il regno gli giunse a causa delle vicende che avvolsero la vita del primogenito, Alberto Vittorio, duca di Clarence. Vicende anche un poco oscure, stando ad alcune fonti. Il fratello del nonno di Elisabetta, infatti, sembra fosse dedito ad una vita un po’ piccante e che avesse anche frequentato qualche prostituta di White Chapel. Tutto ciò prima di innamorarsi, ricambiato, della bella Elena di Orleans, che avrebbe voluto sposare. La fanciulla, tuttavia, era cattolica e, pur con il cuore a pezzi, Alberto si fidanzò con la protestante Maria di Teck. Poco dopo, però, si ammalò gravemente. Di cosa? Manifestava turbe psichiche e accessi d’ira. Anche in questo caso si pensò alla tara ereditaria di Giorgio III, ma non mancò chi attribuì i sintomi alla sifilide, notando l’insorgere anche di una rabbia inconsulta e vendicativa verso chiunque praticasse il meretricio e, dunque, favorisse i contagi. Di sicuro, il suo mondo crollò. Era il 1888. In quell’anno, a Londra, le prostitute venivano uccise da un misterioso assassino che si firmava Jack lo Squartatore. Era lui? Sappiamo solo che i delitti terminarono in concomitanza con il ricovero di Alberto, a parte uno, successivo, che, tuttavia, coincide con una sua fuga dal sanatorio. Inoltre, nelle date degli omicidi, molte delle quali coincidenti con i genetliaci di alcuni membri della Casa Reale, Alberto era effettivamente a Londra e risultava si fosse trattenuto fuori proprio negli stessi orari in cui il misterioso Jack aveva eseguito i suoi macabri riti, benché, in due casi, pare fosse in Scozia. Tutte circostanze alquanto curiose. Le raccontò William Gull, medico di Corte, al Ministro dell’Interno in persona, ma il verbale venne ritrovato solo decenni dopo dal successivo medico di Corte, Thomas Stowell, il quale approfondì la questione tanto da farne oggetto di un saggio sulla rivista Il Criminologo, ove tacque il nome illustre, pur rendendolo perfettamente riconoscibile. Alberto morì nel 1892, ufficialmente per una febbre aggravatasi in polmonite.

Sul palcoscenico invisibile della Corte inglese si animano sempre fatti che si trasformano in leggende e leggende che sembrano fatti.

Come detto, la fine di Alberto segnò l’ascesa al trono di Giorgio V, il nonno di Elisabetta, il quale, a dire il vero, dal fratello non ereditò solo lo scettro ma anche la fidanzata, Maria di Teck, che al suo fianco sarebbe diventata la famosa Queen Mary. Quanto ad Elena d’Orleans, dopo aver sfiorato il matrimonio con l’amato Alberto, sposò Emanuele Filiberto di Savoia Aosta, al quale diede due figli: Amedeo, duca d’Aosta, e Ajmone, duca di Spoleto, entrambi eroi di guerra.

No, l’anima di un bardo non può resistere al fascino di certe storie. La Corona inglese è anche questo: teatro puro.