di Alessandra Antonazzo
Andato in scena il 26 giugno al Teatro Trastevere nell’ambito della rassegna “Prologo”, “Con tutto il mio amore” è un monologo scritto da Giancarlo Moretti, dalle atmosfere claustrofobiche che catapulta il pubblico in una storia di abusi e dolore.
Ad accogliere lo sguardo dello spettatore è una giovane donna vestita di bianco, al centro della scena. La protagonista, smarrita e visibilmente spaventata, crea intorno a sé una recinzione aiutandosi con un nastro intriso di sangue.
Ed è proprio entro questo perimetro che si snoda l’intera narrazione, limitata perlopiù a un fitto dialogo col pubblico; l’attrice infatti cerca chi l’ha rinchiusa tra le file della platea. Allontanata da sua figlia e dal marito, privata della liberà e di ogni effetto personale, la donna scava nella memoria della sua infanzia violata confidandosi con lo spettatore che, ora nemico, ora complice, assume via via le sembianze di confessore, aguzzino e carceriere.
Buio e luce si danno il cambio in scena, accompagnati da un alternarsi di voci giocose di bimbi che intonano un antico girotondo. Così il pubblico, completamente assorbito in questo vortice di ricordi, è portato a indagare l’infelice vissuto di questa donna: quanto dolore deve aver provato per divenire, vittima a sua volta di indicibili violenze, carnefice?
E così, mentre il cortocircuito dell’impianto elettrico lamentato dalla protagonista si trasforma lentamente in un black out emozionale per tutti gli spettatori, l’interpretazione di Ornella Lorenzano, accurata e forse volutamente contenuta, ci consente di entrare in punta di piedi nella psiche di una madre dilaniata dal dolore.
Il delicato tema della violenza sui minori, causa prima di un concatenarsi di atrocità, va quindi ad intrecciarsi con l’infanticidio, e viene affrontato dalla regia in maniera diretta, quasi inusuale. L’intera vicenda ci viene “raccontata” (solo in rari passaggi “mostrata”) dalla protagonista con voce puerile, coerente col fare indifeso del personaggio, mentre la narrazione concede ampio spazio agli elementi tipici delle dinamiche di violenza; la crudele convinzione dello stupro “meritato”, premi in cambio di doloroso silenzio, tragici abusi spacciati per amore.
“Penso che la sofferenza non sia una cosa giusta”, ripete la donna in fuga dal suo stesso dolore, ormai schiava del pensiero rimuginante. Come liberare la sua piccola dalla trappola nella quale lei stessa è caduta? Come risparmiarle il medesimo triste destino?
È la morte, secondo la sua mente confusa, l’unica fonte di liberazione. “Cosa avreste fatto voi se aveste saputo cosa avrebbe sofferto sotto quelle mani, quei corpi?”, domanda la donna prendendo di petto il pubblico e rendendolo di fatto complice del suo terribile delitto.
Una madre metodica, amorevole, accudente nella quale arriviamo a rispecchiarci. Una madre che, come tutti noi, accompagna la sua piccola al corso di nuoto e annota le priorità nello spazio del santo del giorno (prima immagine efficace e concreta donataci dalla regia, fotogramma d’irrinunciabile bellezza dell’intero monologo).
Sembra quasi di vederlo, scritto in un angolo del calendario, il nome di questa bimba che conosciamo a malapena ma che sentiamo nostra, mentre l’odore pungente delle molestie rievocato dalla giovane donna ci entra a forza nelle narici e ci accompagna in un viaggio a ritroso nella sua mente.
La mente di una madre che, esausta, scende nel proscenio e abbraccia la sua piccola stringendo il vuoto, consegnandoci l’immagine indelebile di due infanzie interrotte, ferme, sospese. Irrimediabilmente cristallizzate nel dolore.