Zendaya, regina del tennis, conduce una relazione a tre, tra tensione e potere.
Di Challengers, l’ultimo film di Luca Guadagnino, si è parlato molto e la straordinaria campagna marketing che ne ha preceduto l’uscita in sala non ha fatto altro che aumentare l’attesa e le aspettative. Un marketing non circoscritto alla fase promozionale ma che pervade tutto il film con un copioso utilizzo di product placement. Il film strizza l’occhio al pop già dalle premesse e la scelta del cast, forse la più giusta, muove proprio in questa direzione. Il film è sostenuto esclusivamente da Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist. Essi sono i protagonisti di una partita di tennis lunga 130 minuti che racconta di una relazione a tre. Un triangolo di corpi mossi da tensione e sete di potere. D’altronde, che cos’è una relazione se non un faticoso e continuo scambio in un terreno comune?
Art è un tennista professionista alle battute finali della sua carriera. Non riuscendo più a vincere, la sua allenatrice nonché moglie, manager e a sua volta ex promessa del tennis, Tashi Duncan, lo iscrive a un Challenger Tour che lo vedrebbe super favorito. Arrivato in finale, si scontra con quello che sembrerebbe un tennista mediocre, senza soldi né per una stanza in cui dormire né tanto meno per cambiare maglietta tra un set e l’altro. Quest’ultimo però non è un avversario a caso.
Patrick è stato il compagno di gioco e di stanza di Art durante gli anni dell’accademia di tennis. I due erano inseparabili, fuoco e ghiaccio, legati da un rapporto interdipendente che li ha visti partner sotto diversi punti di vista. Almeno fino a quando entrambi non si sono innamorati della stessa ragazza. Tashi, fidanzata del primo e poi moglie del secondo, diventa allo stesso tempo unione e ostacolo, vertice di un triangolo che tiene morbosamente uniti gli altri due. Sempre, anche visivamente, al centro, la protagonista rappresenta la rete, il net, immobile tra i due lati del campo, in grado di unirli o separarli decretandone anche la vittoria.
Il microcosmo del tennis è la cornice entro cui si ambienta tutta la narrazione. E per chi ha vissuto uno sport a quel livello è ben chiaro quanto esso diventi l’unica forma di realtà contemplabile. Per questo si ha la sensazione di conoscere la natura dei protagonisti nonostante non siano mai esterni alla bolla sportiva in cui sono inseriti. Tutto il film risulta così una grande metafora che prende uno sport come il tennis (trattato per di più da un profano) e lo trasforma nel sinonimo di una relazione, nel senso più lato del termine.
Per Tashi in particolare, tutto è tennis. La sua ossessione trova radici nel considerare esso l’unica cosa che sa fare, il simbolo a cui lei ha attribuito il senso della sua intera esistenza. Per questo motivo, nel momento in cui le viene tolta fisicamente l’opportunità di esercitare il suo talento, lo vive attraverso il marito, diventando anche sua allenatrice. Allo stesso tempo, Art vive il paradosso dello sportivo, sostenuto dal peso di quest’onere, prolungando fino allo sfinimento una carriera che sente togliergli la possibilità di vivere davvero. Sin dall’inizio si percepisce come Tashi sia ossessionata dalla perfezione e dal potere derivante dal buon gioco, mentre Patrick e Art lo sono dalla ricerca di approvazione di lei.
Challengers è strutturato come un’unica partita di tennis, dove il tempo rimbalza tra la finale del tour e tutto ciò che è stato prima. Il ritmo sostenuto, introdotto fin dall’inizio, rimane tale per tutto lo svolgimento, rendendo lo spettatore desideroso di uno smash finale. Guadagnino propone, come già in Bones and All, una centralità dei corpi, che questa volta diventano il fulcro dell’osservazione ipnotica del pubblico. Un pubblico che è spettatore e tifoso. Osserva i corpi lucidi di fatica durante una partita. Osserva i corpi uniti nella danza dell’amore. I tre protagonisti, scritti in modo intelligente soprattutto nella loro complessità psicologica, sono ciò che muove il film. E il messaggio arriva forte e chiaro nonostante la sceneggiatura imbocchi anche troppo il pubblico a trarne le conclusioni.
Il tennis diventa il mezzo per raccontare una tensione tra corpi che è interconnessa alla sessualità. Gli sguardi, il gioco, i gemiti che culminano in un urlo (come l’iconico come on finale di Tashi) richiamano fortemente il climax di un rapporto sessuale. La relazione tra Tashi, Art e Patrick si regge sulla continua sovrapposizione tra lo sport e il sesso. Il sottotesto comune è la ricerca di possesso e sottomissione. Il desiderio di potere che sembrano rubarsi l’uno con l’altro li rende infine tutti e tre una cosa sola.
A sostegno della politica del potere subentra simbolicamente l’elemento fallico, per la maggior parte attribuito al personaggio di Patrick. Questo gli consente di sottomettere Art. Avviene metaforicamente, come quando mangia una banana o un churros proprio mentre sta vincendo la partita o il cuore di Tashi. Avviene fisicamente, quando impone la sua nudità o gli insegna cosa sia la masturbazione. Questo non fa altro però che rendere evidente il rapporto di connessione e desiderio che li lega. A volte allontanandoli, altre volte unendoli in un abbraccio.
Challengers culmina in un finale controverso. Guadagnino usa il tennis creando un epilogo che si accosta a Match Point di Woody Allen o Blow-Up di Michelangelo Antonioni, ma con un significato ancora diverso. Con Challengers, il regista non perde i suoi tipici tratti distintivi. Rimane forte l’attenzione all’estetica e alla profondità di analisi psicologica con cui costruisce i protagonisti. Ciò non gli impedisce però di accogliere le critiche che lo muovono verso la direzione dell’intreccio narrativo.
A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. A voi la scelta sul risultato finale.
Challengers – Regia: Luca Guadagnino – Sceneggiatura: Justin Kuritzkes – con: Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist – prodotto da Metro-Goldwyn-Mayer e distribuito da Warner Bros. – Disponibile nelle sale dal 26 aprile 2024