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C’era una volta Sergio Leone

Intervista “impossibile” al regista romano a 40 anni da “C’era una volta in America”

C’era una volta in America, il capolavoro di Sergio Leone girato nel 1984, vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali, prodotto e diretto dallo stesso Leone, con Robert De NiroJames WoodsJennifer Connelly ed Elizabeth McGovern, e la celebre colonna sonora firmata dal “futuro” premio Oscar Ennio Morricone, compie quest’anno 40 anni.

Nel 2011, Raffaella e Andrea Leone, figli del maestro del western all’italiana che aveva lanciato un giovane Clint Eastwood e diretto capolavori come Il buono, il brutto e il cattivo e Per qualche dollaro in più, acquisirono i diritti del film, affidando il restauro alla Cineteca di Bologna. Il progetto prevedeva il reinserimento di 25 minuti di scene eliminate dal primo montaggio e il ripristino del doppiaggio originale.

Il film fu ripresentato nel 2012 al Festival di Cannes, dove aveva debuttato nel 1984 in anteprima mondiale fuori concorso. In entrambe le occasioni, il cast al completo fu presente in sala insieme ai figli di Leone e al maestro Ennio Morricone, scomparso nel 2020.

Quando nel 1989 Sergio Leone morì, stroncato da un infarto, stava lavorando a un ambizioso progetto cinematografico che avrebbe raccontato l’assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale, tragico evento durato dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944, un kolossal dal budget stimato di 100 milioni di dollari.

James Woods e Robert De Niro

Ricordo la mia diretta per i TG della Rai nel giorno della sua scomparsa, proprio davanti al cancello della sua splendida casa romana nel quartiere EUR, dove in più di un’occasione lo avevo intervistato. Anche oggi, a quarant’anni di distanza, l’idea di realizzare una delle mie “interviste impossibili” continua ad accarezzare la mia inquieta immaginazione.

Me lo immagino al tavolo del celebre ristorante Tetou, sul mare di Cannes, lungo la strada per Cap d’Antibes. Dopo la presentazione trionfale del film, ci portò a cena con la mia compagna di allora, la giornalista del Corriere Mimmina Quirico, e il suo grande amico Paolo Villaggio, a bordo della sua Rolls Royce. Un Sergio Leone strepitosamente simpatico nella sua versione gourmand, in perfetta sintonia con un Villaggio non da meno: entrambi entusiasti di quel film, ormai consacrato come autentico capolavoro della cinematografia mondiale.

Seduto con lui in quel ristorante sul mare di Cannes, davanti a una scodella fumante di bouillabaisse preparata dallo chef stellato appositamente per lui, l’atmosfera sembrava sospesa nel tempo, tra risate, aneddoti e la magia di un’epoca irripetibile.

Maestro, dopo 15 anni di lavoro per realizzarlo e 40 anni di successi lo rifaresti?

Si lo rifarei! Ma con gli stessi attori, le stesse strepitose coreografie di Gino Landi, gli stessi sceneggiatori da De Bernardi a Benvenuti, da Medioli ad Arcalli e Ferrini. La stessa magia musicale del mio amico Ennio e ricordo come fosse oggi, quando per calmare la mia usuale ansia durante le prime settimane di lavorazione mi fece ascoltare al pianoforte il bellissimo tema del film. Capimmo tutti fin da subito che quello era ciò che volevamo con gli sceneggiatori del film.  Ho sempre detto che Morricone è stato per i miei film il miglior sceneggiatore. Era impossibile per me girare una scena senza avere a disposizione dal vivo la musica di Ennio e questo lo feci digerire anche ad attori abituati alla presa diretta come De Niro, Fonda, Charles Bronson ed Eli Wallach, disorientati in un primo momento dal mio modo di girare con la musica.

E poi, come fare a meno della cromaticità della fotografia del grande Tonino Delli Colli, i costumi firmati da Gabriella Pescucci, le scenografie di Carlo Simi e James Singelis, il trucco di Manlio Rocchetti. E forse oggi alla luce del tempo, anche nella versione per il mercato americano lo rifarei della durata originale di 220 minuti anziché dei 140 imposti dai distributori americani nel 1985, una versione ridotta che sconvolse la stessa struttura temporale del film!

Struttura, maestro che si rifaceva all’autobiografico romanzo di Harry Grey, che narra l’epopea sociale in una metropoli come New York raccontata nell’arco di più di 40 anni dal 1920 al 1960 attraverso le gesta del duo criminale Noodles” Aaronson e “Max” Bercovicz e dei loro amici, cresciuti nella povertà e nello squallore degli slums newyorkesi fino “all’ingresso” nell’ambiente della malavita organizzata nella grande mela del proibizionismo e post proibizionismo. Una sorta di Neorealismo a stelle e strisce?

Il film è soprattutto una critica politica alla società americana di quegli anni roventi e al percorso di involuzione che poteva minare il “sogno americano”, attraverso il radicato sistema di corruttele sulla quale si poggiava la malavita organizzata.

Ricordo che negli anni ‘70 ce ne parlasti la prima volta quando ti invitammo alla Rai di via Asiago a Roma, ospite della trasmissione Buon pomeriggio condotta da Maurizio Costanzo e Dina Luce

Si, credo che la trasmissione di Orazio Gavioli, Film jockey e  quella di Costanzo e Dina Luce, furono le prime trasmissione in diretta dove parlammo se ben ricordo della rinascita del genere western, grazie anche a film come “Per un pugno di dollari” e “Per qualche dollaro in più”  e poi “Il buono, il brutto e il cattivo”, che i giornalisti avevano ribattezzato  la trilogia  del dollaro; mentre film come “Giù la testa” fanno parte secondo me di una serie di western della seconda frontiera americana come scrive il bravo Morando Morandini, la trilogia della fiaba.

La critica scrisse che C’era una volta in America aveva profondamente rinnovato il lessico dei cosi detti gangster movies. Proprio qui a due passi da questo ristorante fra Cannes e Cap d’Antibe, grazie ed una vecchia amicizia ottenni all’Hotel du Cap, una delle mie interviste con Clint Eastwood che debuttava come regista con Bird, un bel film sulla figura del sassofonista di colore Charlie Parker. Andai da lui intenzionato a farlo parlare anche di te; mi misi in tasca un mezzo sigaro toscano uguale a quelli che gli costringevi a mettere stretto fra i denti all’angolo della bocca quando girava i tuoi film. Mi sorrise e mi disse: Ho capito! Se lo mise in bocca e mi raccontò della vostra amicizia e di tutte le volte che veniva a Roma, dei pranzi a casa tua, con tua moglie e i ragazzi e poi la sera al ristorante.

Clint aveva una maschera perfetta con o senza cappello, ma non senza sigaro! Era provvisto di un grande senso dell’umorismo anche se all’inizio quel mezzo toscano gli andava proprio di traverso. Pensa che quando lo chiamai a Los Angeles per offrirgli il ruolo di “Per qualche dollaro in più”, mi rispose con entusiasmo ma mi chiese se per favore potevamo evitare di fargli fumare quel mezzo toscano fra i denti. 

E tu maestro cosa rispondesti?

Di Clint non possiamo tagliare fuori il sigaro, è il protagonista!!!!

Meglio Robert De Niro o Clint Eastwood?

De Niro si immergeva nel film e nel ruolo assumendo la personalità del personaggio descritto dalla sceneggiatura con la stessa naturalezza con cui uno indossava un cappotto. Clint era come se indossasse un’armatura, abbassando la visiera con uno scatto rugginoso.  Bob soffriva, Clint sbadigliava, ironicamente sornione.

In una bella intervista rilasciata a Francesco Mininni grande esperto di cinema,  nell’ 1988, dichiarasti che al di la della critica, il cinema deve essere soprattutto spettacolo. Concordi?

Credo che sia sempre questo quello che il pubblico vuole. Il cinema è mito, poi dietro lo spettacolo si può suggerire attualità, politica, critica sociale, ideologia, ma senza prevaricare. Il cinema è soprattutto fantasia. Nei miei western il pistolero buono è un giustiziere che mette in crisi il potere, proprio come faceva Charlie Chaplin con Charlot nella Hollywood del maccartismo. Con ironia ma anche con la precisa consapevolezza distruttiva.

Che cosa resta secondo te a distanza di 40 anni di C’era una volta in America?

Un omaggio alle cose che ho sempre amato nel cinema, in particolare alla grande letteratura americana del ‘900 da Dos Passos a Hemingway fino a Scott Fitzgerald.  Il film è la ricostruzione di quell’ America dei sogni di milioni di immigrati, l’America delle contraddizioni e del mito; non a caso come in un sogno il film inizia e finisce in un teatro di ombre cinesi e i gangster di C’era una volta in America non sono più pistoleri della prima frontiera. Il film è la somma finale della mia carriera, forse il mio modo di vedere le cose come ho detto tante volte, tal volta ingenuo e forse anche un po’ infantile, ma è sicuramente sincero come quei bambini che giocavano con me quando ero piccolo sulla scalinata di viale Glorioso a Roma dove sono nato e dove giocavo, sognando il cinema!

Ha ragione l’ottimo Giandomenico Curi quando scrive: «All’epoca di Sergio Leone c’erano 128 paesi che compravano i suoi film a scatola chiusa, tutti guadagnavano e le sale cinematografiche erano sempre piene. Tutto è durato finché c’è stato lui!»

Ed eccolo ora, nel mio sogno impossibile: all’uscita dal Tetou, adagiato sull’azzurro mare di Cannes, dove quarant’anni fa tutto era cominciato con C’era una volta in America, Sergio mi saluta con quell’aria da furbetto da celluloide. Sale sulla sua luccicante Rolls Royce pronto a volare via come in un film di fiabe, non prima di sussurrarmi con quel vocione baritonale, fissandomi negli occhi e dandomi appuntamento per il giorno dopo sul set di uno dei suoi favolosi western: «Tonino, ci vediamo a Almería!»

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