Intervista al regista e Direttore Artistico del Teatro Belli, Carlo Emilio Lerici.
Pochi giorni fa ha inaugurato la ventitreesima edizione della Rassegna TREND con la pièce Ismaele/Antigone. Ebbene sì, stiamo parlando di Carlo Emilio Lerici, regista e Direttore Artistico del Teatro Belli. Figlio d’arte (per nome, ma non per merito che ha saputo conquistare con determinazione e talento) del drammaturgo Roberto Lerici, ad oggi raccoglie l’eredità artistica di Antonio Salines guidando uno dei gioielli della scena teatrale romana (e non solo) e portando avanti – con grande cura e dedizione – una profonda storia e cultura teatrale. Ma, nonostante le numerose sfide, Lerici continua a coltivare il suo amore per il teatro e, soprattutto, il vivace divertimento che ancora oggi questo gli regala, come ci ha raccontato in un’appassionante chiacchierata.
È noto di come lei sia cresciuto in un ambiente teatrale, ma è sempre interessante scoprire il percorso personale che porta qualcuno a trovare nel teatro la propria vocazione. Qual è stato il momento o l’evento che ha acceso in lei questa passione – o per meglio dirsi, appunto, vocazione?
In realtà non posso dire che ci sia stato un momento, perché la prima volta che sono salito su un palcoscenico avevo 7 anni con un’opera di Carlo Quartucci e Giorgio Gaslini per l’inaugurazione del Teatro Sociale di Lecco nel 1969. Carlo mi diede un panino e un giornalino e mi disse : «Tu stai lì e leggi» e mi ricordo quest’esperienza come una cosa surreale (che poi gli spettacoli di Quartucci erano già di loro abbastanza innovativi e surreali). Dopodiché passavo sempre le giornate a teatro, perché poi quando la mia famiglia si è trasferita a Roma è cominciata la collaborazione con Antonio Salines e il Teatro Belli e noi bambini eravamo sempre lì durante le prove. Per cui, di fatto, è come se nella propria infanzia ci fosse sempre il teatro a far parte della giornata. Quindi, dire quando è stato il momento è complicato. Le mie sorelle, oltretutto, sono andate in scena giovanissime: mia sorella Barbara aveva 9 anni quando è andata in scena al Belli; mia sorella Vanina,11 e mia sorella Roberta, 15. Quindi il passaggio dalla platea – dove ci addormentavamo durante le prove – a salire sul palcoscenico a lavorare, è stato senza neanche accorgersene. Diciamo, però, che il passaggio decisivo è stato nel 1981 quando mio padre stava preparando “Risorgimento” per il Festival dei due Mondi di Spoleto con Armando Pugliese. Mentre discutevano del testo, Pugliese mi chiese se volessi andare a dargli una mano e mi disse «vuoi che ti trovi una parte per fare un giovane garibaldino o vuoi darmi una mano come assistente alla regia?» e lì, sulla domanda, io gli risposi «assistente alla regia». Ecco, diciamo che quello è stato lo spartiacque, per cui ho scelto un percorso rispetto a un altro. Però tutto molto casuale; anche perché quando il teatro fa così parte della tua vita anche le scelte diventano assolutamente casuali. Poi, è chiaro che sia un lavoro che si impara ad amare con il tempo…
Dopo Pugliese ho lavorato di nuovo con Quartucci, con Salines occupandomi sempre un po’ di tutto (dalle cose tecniche all’aiuto regia). Però, ecco, non me ne sono nemmeno accorto. Mi sono trovato dentro al teatro senza fare realmente una scelta. C’ero dentro e ci sono rimasto.
Sono passati ormai molti anni da quel fatidico 1993, anno in cui firmò la sua prima regia. Come descriverebbe oggi la sua evoluzione da regista? C’è ancora qualcosa di quel suo primo approccio o il suo stile si è trasformato radicalmente nel tempo?
Devo dire che il minimalismo, che mi piaceva già trent’anni fa, è rimasto; tendo a fare spettacoli con molte poche cose in scena.
Giocare con le ombre, le luci; con la musica, è un elemento che è rimasto. Provo un grande divertimento a musicare gli spettacoli. Poi, sono cresciuto con mio padre che era un grande drammaturgo, ma cha aveva una grande passione per tutto lo spettacolo: era capace di passare dal varietà del sabato sera televisivo “MiIleluci” con Mina e la Carrà a spettacoli con Carmelo Bene, piuttosto che con Carlo Quartucci. Insomma, spaziava e si divertiva a fare tutto senza considerare una cosa più nobile dell’altra e questo me lo ha trasmetto. E a me è rimasta questa passione per tutto il teatro, per cui mi diverto a fare commedie, come i grandi “drammoni”; piuttosto che fare spettacoli più sperimentali o tradizionali. Non ho un settore in cui preferisco muovermi. A me piace spaziare a 360 gradi nello spettacolo.
Suo padre, Roberto Lerici, è stato un drammaturgo di grande spessore. Ha mai avvertito il peso del suo bagaglio artistico come una presenza ingombrante, o lo ha vissuto piuttosto come una fonte d’ispirazione?
In realtà la mia prima regia è stata successiva alla scomparsa di mio padre; quindi non ho vissuto un periodo in cui ci fosse una contemporaneità di attività per cui poterne o subire o approfittare della presenza. Anzi, mi è rimasto sempre come riferimento: molte volte mi sono domandato chissà cosa avrebbe detto; chissà cosa avrebbe fatto o mi avrebbe consigliato. Mi è rimasto sempre anche un grande rispetto perché, ad esempio, a me piace molto scrivere ma non sono mai andato oltre la traduzione e l’adattamento di testi inglesi, piuttosto che americani,ecc.. Non mi sono mai messo sullo stesso territorio della scrittura vera e propria. Per cui ne ho mantenuto un sacro rispetto e nutro, oltretutto, un sacro rispetto nei confronti dei copioni. So quanto lui soffriva per i tagli che faceva dai suoi testi e anche io, devo dire, che soffro molto a tagliare i testi degli spettacoli che porto in scena. Non posso dire di aver vissuto questioni del “figlio d’arte”, anche perché non ho avuto una carriera facilitata per qualche motivo. Sono entrato al Belli nel 1982 e quando ho cominciato a fare le regie e a collaborare con Salines strettamente erano, ormai, già passati undici anni che fossi dentro al teatro. Quindi me l’ero guadagnata sul campo, lavorando duramente. Un lavoro che poi si è rivelato utilissimo successivamente perché credo di essere tra i pochi registi in grado di montare uno spettacolo completamente da solo (e farselo anche da solo). Pertanto, non ho mai patito particolarmente la figura di mio padre; anzi ogni tanto mi piacerebbe sapere cosa ne penserebbe del mio lavoro.
Antonio Salines è stato per lei una figura centrale, possiamo dire un mentore, di cui oggi ha raccolto l’eredità. Quali sono i ricordi più significativi che conserva di lui e in che modo ha segnato la sua carriera artistica?
Beh, tutta la mia formazione è stata con lui, seguendolo, negli anni ‘80. La sua capacità enorme di essere un bambino che giocava; di vivere il teatro come un gioco: questa, è la cosa più bella che mi ha lasciato. Poi, nel ‘92, quando è mancato mio padre, contemporaneamente qui al Belli è mancata la persona che dirigeva il teatro e lui, senza pensarci due volte, mi ha detto «Ora tocca a te. Sei tu il direttore di questo teatro». Ha avuto una grande fiducia in me. Negli anni, poi, il rapporto si è stretto; abbiamo prodotto spettacoli insieme e lui si è messo a mio totale servizio. Aveva una fiducia totale dandomi, inoltre, tantissima energia e convinzione in quello che facevamo. Ho dei ricordi meravigliosi di tournée fatte con lui e sua moglie, Francesca Bianco e il mio cane; sul camioncino, in tre, con le scene dietro andando in giro per l’Italia a fare spettacolo e divertendoci come dei matti. Negli ultimi anni, poi, viveva in un appartamento attaccato al teatro tant’è che quando faceva spettacoli passava direttamente dalla camera da letto al camerino e al palcoscenico senza uscire di casa e anche lì eravamo proprio una famiglia. Pertanto, se devo proprio dire, Salines è scomparso nel 2021; praticamente ho trascorso più anni con lui che con mio padre. Quindi, non può che essere stata una figura fondamentale nella mia formazione come nella mia vita, a cui sarò sempre grato.
Ad oggi è Direttore Artistico di uno dei punti di riferimento per il teatro romano (e non solo), il Teatro Belli, dove porta avanti il progetto intrapreso da Antonio Salines. Per questa nuova stagione, ora ai suoi esordi, quale fil rouge ha guidato la scelta del cartellone? C’è un tema o una visione che collega le diverse proposte?
Il Teatro Belli quest’anno è alla Cinquantaquattresima stagione teatrale consecutiva. In realtà, cinquanta di queste sono state con Salines e le ultime quattro con me, ma di fatto è come se fosse un’unica direzione che dura da Cinquantaquattro anni perché siamo sempre noi; è come se fosse sempre la stessa famiglia. Credo che questo sia un caso unico in Italia (forse il Teatro Libero di Palermo ha una storia analoga). Per la stagione di quest’anno, abbiamo innanzitutto quest’ultima edizione di TREND, che ci accompagnerà fino a metà novembre, in cui abbiamo deciso di puntare sul tema della violenza di genere. Dopodiché, sono convinto che vada fatto molto teatro per le scuole perché è lì che si forma il pubblico del futuro. Pertanto, abbiamo tutta l’ultima parte dell’anno dedicata alle scuole con una programmazione di qualità perché in quel settore – secondo me – bisogna lavorare molto; ma non con i grandi numeri. È chiaro che fare spettacoli per le scuole al Belli non è conveniente come farli in teatri più grandi dove si buttano dentro cinquecento, seicento ragazzi e si fa l’incasso. Farli al Belli, invece, è portarsi cento, centoventi ragazzi che praticamente sono sul palcoscenico con te e quindi c’è un rapporto diverso; un lavoro diverso. E secondo me questo è molto importante. Poi, credo che i risultati ottenuti in questi ultimi anni in cui abbiamo intensificato questa tipologia di programmazione hanno dato dei risultati. Con il nuovo anno, invece, torniamo con un Festival – in collaborazione con la Società per Attori di Franco Clavari – interamente dedicato alla drammaturgia italiana, EXPO, che lo scorso anno abbiamo proposto in via sperimentale e che quest’anno la riproponiamo. E anche qui, cerchiamo di lavorare su un territorio da cui tutti i teatri italiani rifuggono, la drammaturgia italiana. D’altra parte se si dice che non ci sono più scrittori è perché nessuno dà l’occasione agli scrittori di andare in scena; di sperimentare se quello che scrivono funziona o meno. Speriamo, così, anche in questo di essere alternativi al mercato nazionale. O almeno, ci si prova a ritagliarsi degli spazi. Anche se, devo dire che è faticosissimo!
Noi veniamo da un 2023 dove la rassegna TREND aveva un finanziamento di €30.000 dal Comune di Roma e di €30.000 dalla Regione Lazio che sono stati azzerati all’ultimo momento. Questo, per un teatro piccolo come il nostro, ci ha messo in ginocchio e ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Però, stiamo cercando di ritirarci su inventandosi altro. E se passato un anno siamo ancora qui, allora significa che stiamo lavorando nella direzione giusta.
Recentemente è iniziata la ventitreesima edizione della Rassegna TREND, che si concentra sulla drammaturgia britannica. Come è nata l’idea di dare spazio alla drammaturgia estera e quale urgenza sente nel promuoverla?
L’idea di ventitrè anni fa è di Rodolfo di Giammarco, che poi io ho subito accolto perché lui la primissima edizione la fece al Teatro Colosseo (quando ancora era teatro). Il motivo della scelta è semplice; perché la drammaturgia inglese è indubbiamente un esempio per tutti. Loro hanno proprio una scuola di scrittura; uno spazio alla scrittura che andrebbe preso come esempio. Quindi, il nostro tentativo era quello di cercare di portare tutto il meglio del contemporaneo inglese in Italia, darlo in mano agli artisti italiani e cercare di creare un movimento che portasse in bella evidenza che cosa fosse la drammaturgia inglese e perché fosse così vincente nel mondo. Questo, sperando che fosse di buon esempio per i nostri drammaturghi. Abbiamo anche cercato, per qualche anno, di metterla a confronto con altre drammaturgie europee, ma alla fine la forza che hanno gli autori inglesi non si riesce, ahimè, a trovare così facilmente altrove.
Il focus di questa edizione è un tema cruciale, la violenza di genere e il ruolo della donna nella società contemporanea. Ha inaugurato la rassegna con la sua regia di Ismaele/Antigone (Pale Sister) di Colm Tóibín, un vero manifesto di rivendicazione. In che modo crede che il teatro possa essere un veicolo di trasformazione sociale su temi così attuali?
Credo che se il teatro è in grado di proporre un tema e una riflessione su quel tema, già in questo è potente. Si dice che il teatro debba far ridere o piangere; se lascia così… allora è inutile. Ma, se in qualche maniera ti muove delle emozioni sicuramente quando torni a casa qualcosa è successo. Nel portare in scena “Ismaele/Antigone” – cosa che mi ha divertito molto – ho scoperto che Antigone è studiato dalla facoltà di legge come caso specifico di contrapposizione di legge divina e legge di stato. Quindi, di suo è già un tema enorme; in più in questa lettura femminista, sulla condizione femminile che ne da Tóibín c’è, sì, tutto il racconto e la tematica storica di Antigone; ma arricchita di aspetti assolutamente contemporanei. Ed è quella forza, che genera lo stupore nello spettatore. Il cortocircuito che si crea su tematiche così enormi tant’è che diventano tematiche dei giorni nostri, indubbiamente lascia allo spettatore qualcosa su cui riflettere. Ecco, secondo me questo è uno degli obiettivi. Credo, tra l’altro, che questo spettacolo potrebbe essere considerato un vero e proprio spettacolo di teatro politico (anche perché al suo interno c’è un percorso che racconta come nasce una dittatura). Quindi, è pieno di sviluppi diversi che uno può seguire. Credo che operazioni così; testi così forti, sicuramente muovono le coscienze.
Per inciso. Con lo stesso gruppo, già da un paio di stagioni, abbiamo portato in scena la “Didone”. E per la Didone è lo stesso! È incredibile come una storia di un dolore inestinguibile possa diventare così contemporanea.
Concludendo. Guardando al futuro, quali sono i suoi prossimi progetti come regista e direttore artistico? E quale direzione immagina o desidera per il teatro, e per il suo Teatro Belli in particolare?
Pensando ad un futuro immediato, stiamo per cominciare le prove di un nuovo spettacolo; una nuova versione del “Volpone” di Ben Jonson, un classico che sembrerà modernissimo. Il mio desiderio, poi, è riuscire a continuare ad alternare grosse produzioni insieme a questa compagnia meravigliosa che mi segue tra mille difficoltà e con cui riusciamo ad andare in giro con dodici, tredici attori; quindici, sedici persone in totale (compresi i tecnici). Difatti tutti mi chiedono «Come fai? Come fai? Coma fai?». Non lo so. Lo faccio perché ho una compagnia meravigliosa e siamo felicissimi di andare in giro a portare grandi classici rivisitati in maniera molto allegra e moderna e che funzionano molto bene. Quindi, da un lato, vorrei continuare con questa compagnia a fare questo tipo di percorso. Dall’altro, vorrei continuare il percorso con quei piccoli spettacoli più di nicchia (ma non per questo meno importanti). Ecco, vorrei continuare a giocare con il teatro!
Per il Teatro Belli, invece, spero di riuscire a tenerlo ancora aperto; ma è molto difficile. Senza aiuti è impensabile. Quindi speriamo che gli aiuti continuino ad arrivare per riuscire a tenerlo aperto e per continuare a proporre quello che di più bello proponiamo senza essere costretti a compromessi per mantenere il teatro aperto. Ah, poi, da tre anni dirigo anche un teatro in Umbria, il Teatro Clitunno, insieme a dei soci. È molto divertente operare anche in un altro territorio perché i rapporti sono molto diversi; la realtà dei piccoli comuni è un altro mondo. E questo è molto curioso e stimolante. Insomma, io continuo e voglio continuare a divertirmi. Questo è l’importante!
Passione e divertimento per il teatro. Un monito, quello di Carlo Emilio Lerici che non possiamo non accogliere augurandogli che, nonostante le sfide economiche e le difficoltà che un teatro indipendente è costretto ad affrontare, non smetta mai di coltivare. Il suo impegno costante e la sua passione contagiosa dimostrano che, in fondo, il teatro continua ad essere una casa; un luogo di incontro e scoperta, dove il passato si intreccia al presente e il futuro si costruisce spettacolo dopo spettacolo.