L’incrocio dei destini
C’è qualcuno ancora vivo là fuori ?.
Questo il titolo dell’ultimo libro di Marco Palladini ( Gattomerlino edizioni, settembre 2024), che vivamente ci interroga ed irretisce.
‘Ancora vivo’.
Un accento polemico, politico oserei dire, che salva Palladini dal coincidere con la sconfitta depressiva, nazi involutiva del protagonista del celebre album (1979), e poi film (1982) dei Pink Floyd, The wall.
Ma come non ricordare, nel film, il ripetersi ossessivo, di fronte al muro, dell’urlo di solitudine del protagonista, prima della definitiva rinuncia ad affetti e speranze.
Is there anybody out there? (C’è qualcuno là fuori).
Il mondo impenetrabile a lui coincide, a breve distanza, nelle canzoni successive, con l’impenetrabilità di lui al mondo, quando risuona a specchio la domanda dell’ipotetico dottore di sistema: Is there anybody in there?
There is no pain you are receding / A distant ship smoke on the horizon / You are only coming through in waves / Your lips move but I can’t hear what you’re saying
[…] The child is grown / The dream is gone / And I have become / Comfortably numb.
Non c’è alcun dolore, ti stai allontanando / Una nave distante, fumo all’orizzonte. / Stai solo attraversando le onde / Le tue labbra si muovono ma non riesco a sentire cosa dici
[…] Il bambino è cresciuto / Il sogno è svanito. / Sono diventato / piacevolmente insensibile.
Solitudine?
Sì, ma in Palladini solitudine di lotta. Mai rinuncia. Solitudine perplessa, in ascolto. Solitudine pensante. Non urlo né piacevole insensibilità. Ma piacevole distacco sì, nel farsi nella lotta, sdoppiato osservatore, io-non io. Io disseminato nella carne del mondo. Nella ridicola assurda carne della vita disvita come forse direbbe lui, dell’oggidiana deiezione post, post in tutti i sensi. Post ogni dicotomia e polarizzazione ideologico teorica. Irrealinauta della realtà irreale che si fa nostro continuo reale naufragio nello spettacolo della assurda alterità onnipresente dell’assurda onnipresenza del possibile e dell’identico.
Ma certo, anche se si fa occhio curioso ed indagatore, catalogatore dello spettacolo, subacqueo, osservando la vita dei mondi ‘di sotto’, e decentrato Ulisse delle multiple periferie centrali dell’essere, della fenomenologia della paccottiglia che ci invade e divora in compresenza.
Certo – anche se tutto questo è dominanza filosofica e distacco, e piacere del disnarrare – non si può escludere la spina di base, il dolore incistato, il senso di soffocamento che spinge a cercare di evadere ed inessere.
Dolore e soffocamento. Claustrofobia.
Il muro floydiano, in definitiva, che forse non a caso vagamente riecheggia nella copertina claustrofobica e desertica.
Palladini si ribella alla solitudine, che non è individuale ma strutturale, alienazione sistemica disumanizzante. In questo rimane politico, anche se ormai filosoficamente creativo e divagante. In questo resta politico. Ma la radice sta nella ferita. E la chiamata a correi del titolo lo dimostra.
Ma chi è Palladini?
Un breve ed improbabile riassunto, prima di tornare al libro in questione.
Protagonista e teorizzatore dell’onda orgasmatica della ribellione giovanile degli anni settanta, militante ed attivista di primo piano dell’estrema sinistra operaista. Come molti allora immerso nella utopica coincidenza di rivoluzione politica e sessuale, e come molti precocemente disilluso, deietto nel disincanto, forse prima ancora della chiarezza della sconfitta, ma senza mai tradire, Marco Palladini sposta la sua militanza nella scrittura, come testimonianza di resistenza ed impegno critico contro, autoeleggendosi virus antisistema.
Non a caso forse dunque la sua partenza è nel teatro – come drammaturgo, attore, regista, performer, critico teatrale – laddove cioè la scrittura sembra ancora vicina ad una dimensione sociale collettiva, possibilmente urticante.
Ma anche del teatro, pian piano – con il tramonto di una stagione intellettuale avanguardistica diventata per un decennio fenomeno collettivo – si va esaurendo l’incisività da un lato, e la novità linguistica dall’altro. E pian piano, anche lì, pur non tradendo, Palladini si sposta sul versante della memoria, del bilancio critico.
Non smette per altro subito di praticarlo, ma vira da testi più autoriali a testi omaggio: molti su Pasolini, ma altri dedicati a Jack Kerouac, Gianni Toti, Emilio Villa. Nel frattempo diventano prevalenti in lui prima la scrittura poetica (molte le sue raccolte), e poi sempre più la prosa, inizialmente autobiografica, poi crescentemente sperimentale, in una direzione che coniuga straniamento filosofico politico e fiction.
Sempre, di sottofondo, permane la dimensione collettiva, come memoria e testimonianza, come dialogo esplorativo con una realtà che nel suo deluderci non ci delude più veramente, essendo ormai intrisi di disperato curioso disincanto. Non piccola e separata parte di ciò il suo essere anche direttore di riviste online, prima Le reti di dedalus, ora L’Age D’or.
Ma torniamo al libro, che per inciso, precisiamolo, non è un romanzo, ma una raccolta di racconti, uniti tuttavia da un filo comune, ed in tal senso formanti un macrotesto, e quindi in un certo senso un romanzo, un universo unitario.
Perché un macrotesto ?
Perché i racconti sono qui come le parole in una frase, e le frasi in un testo.
Il macrotesto quindi funziona come un testo, e un testo “non è una sommatoria di frasi, ma le frasi fra di loro devono avere un rapporto per produrre un significato che supera il significato delle singole frasi in sé prese” (Testi o macrotesto? Maria Corti, 1978).
Vi è inoltre qui a mio avviso un altro dei requisiti del macrotesto, così come lo teorizza Enrico Testa (Il libro di poesia, 1983), in quel caso per le raccolte poetiche, e cioè una progressione di senso.
Una progressione di senso, sì.
Vediamo infatti che su undici racconti cinque hanno al centro il mestiere del detective o del poliziotto (maschi, a ristabilire l’ordine, capire), due delle giornaliste (testimoniare la verità, come base di un risanamento), ed infine gli ultimi tre racconti, a diverso titolo l’apertura al possibile, l’esplorazione senza regole, tra realtà vaga deriva fantasy ed oniria.
Ordine e risanamento non sono possibili, ma il reale continua a contenere infiniti possibili, e persino speranza nella non speranza. Non speranza preorientata, in tal senso ‘non speranza’; ma apertura al possibile sì. Dunque la raccolta presenta una progressione di senso dalla chiusura all’apertura, dove il filo comune è la perseveranza del viaggio d’indagine, su più piani, senza rinuncia, facendosi puro sguardo, ascolto dell’irrazionale del caos orizzontale, in una realtà che appare nello sguardo di Palladini come un distorto circo fumettaro underground, tragicomicamente grottesco, ma più vero di quanto non vogliamo vedere, nel velo della nostra attenzione selettiva, che cancella il sovraffollamento di notizie allucinanti che pure ci avvolgono. Un grottesco che si fa alternativamente ritmo sincopato della narrazione, destrutturazione della narrazione in infinite digressioni, e sul piano linguistico spesso espressionismo linguistico per concentrazione descrittiva e barocca mistura di registri e distorsioni lessicali, con aggiornata sensibilità gaddiana.
Quindi specchio dell’impossibile possibilitato nell’allucinazione del troppo reale, ma anche resa ad un senso che ci sfugge solo quando ci ostiniamo nella domanda verticale gerarchica, oserei dire ideologica, di un senso. In realtà l’idea è quella guattariana della caosmosi, di un caos che nell’orizzontalità dei multiversi in continuo movimento della totalità ontologica, si fa kosmos, attraverso una rete di nodi ed interconnessioni infiniti (Millepiani, 1980), matrice del possibile
Si vedano del resto le sue parole in Caosmosi, il suo ultimo testo, del 1992
«Parlare di macchina anziché di pulsione, di Flussi anziché di libido, di Territori anziché di istanze dell’io e di transfert, di Universi incorporei anziché di complessi inconsci e di sublimazione, di entità caosmiche anziché di significante” (pp. 124-125).
«Comunque sia, gli intellettuali […] dovranno lavorare alla messa in circolazione di strumenti di trasversalità» (p. 127).
“Si tratta ancora una volta di estrarre dal continuum caosmotico grumi di senso da pilotare in una direzione che generi instancabilmente nuove cartografie del mondo”
Territori, non istanze dell’io, trasversalità, cartografie del mondo. Credo riassuma il senso delle disnarrazioni di Palladini, la sua continua messa in questione dell’io, la problematizzazione stessa del narrare come indagine, e, ora va di moda, la post verità, l’apparente assenza di ogni verità (tutto fake) e di ogni orizzonte, nell’orizzontalità caosmica delle multivoci.
E quindi?
Rabbia e solitudine, ma soprattutto smarrimento nell’anonimo gran mar dell’essere disessere del tempo nostro, e pervicace tentativo di cartografare l’incartografabile, mappando la caosmosi e la deflagrazione dell’io, per inflazione al contempo e deiezione, rifrazione, disseminazione, evaporazione. Eppure questa fantomatica istanza, sia pure da ridefinire, è l’àncora, come istanza d’indagine. Perché pur nel decentramento il libro ha un tema centrale che è la possibilità ancora di indagare pensare rispondere alla domanda sensica.
Ma prima di riandare a questo.
Se nei primi cinque racconti in modo diverso assistiamo ad indagini senza centro, e tutte finite per repressione o per caso, con la morte dell’indagante, e negli ultimi cinque a peregrinazioni giornalistiche o viaggi fantastici, sempre per tornare a macrotesto e struttura, proprio al centro, sesto su undici, si situa il racconto ‘Incroci di destini’
Un racconto ironico e liberatorio, realistico nel suo fumettismo, che ha come motore del caso l’incrociarsi di esistenze in un condominio. Una comica sul caso dove comicamente del caso gli uomini si fanno finalmente signori, navigandolo. Una cesura che apre al maggior protagonismo operativo degli attanti delle narrazioni a seguire.
Anche qui. Nei primi cinque racconti, la morte e la violenza, senza senso. Da qui invece viaggio ed eros. Eros beninteso, non amore.
Quando pensavo a come iniziare infatti pensavo di dire che Palladini non parla né di morte né di amore, ma solo di fattualità: decessi, omicidi, eros. Casuale? No. Ci anticipa lui
Non leggere mai romanzi […] Se parlano d’amore, chi li ha scritti non sapeva amare. Se parlano di morte, chi li ha scritti non sapeva morire. Se parlano di niente, chi li ha scritti sapeva tutto. Tutto del niente. Fidati solo di me: che non so niente e ti spiego tutto. (p47)
Ma chi è l’attante di queste affermazioni?
Sono idee destituite di un ego a supporto.
Sono le parole di discorsi in codice con cui – nel terzo racconto La notte negli occhi – un informatore mette il detective sulle tracce della verità, nella sua indagine su un terrorista, dove senza arrivare a nulla egli verrà manovrato e poi ucciso.
Tutto nel testo di Palladini è infatti, proprio come nelle indagini sulle ‘trame oscure’ (e la realtà è per eccellenza una trama oscura), un continuo depistaggio, una deflagrazione di derive, dove quanto detto viene desostanziato di consistenza, tanto nel contenuto quanto nella sostanza di un possibile ego originante.
E Palladini – che nel corso del testo continuamente semina bombe contro il concetto di io autore identità, all’insegna del lacanniano marxiano guattariano ‘siamo tutti parlati’, e delle proustiane stratigrafie temporali dell’io – ci avverte continuamente di restare fuori dalla catarsi identificatoria, dal sentimento (morte, amore, ideologia), per aderire ad una brechtiana pratica di straniamento pensante, e più modernamente, di decostruzione dubitante.
“La verità non è una rendita di posizione… chi vuole battere un colpo non può rappare a vuoto… il meato attraverso cui tu intendi passare non può essere una scorciatoia… il soggetto supremo a cui vuoi approdare è come una antica, sfinita e infinibile falsità, una menzogna comprovata che genera il terrore negli occhi e negli orecchi di coloro ai quali viene ripetuto ‘credo quia absurdum’… lo scritto che cerchi di decifrare equivale a una post scrittura murale visiva di cui devi possedere i codici… tu avrai pure un esprit de geometrie, ma senza l’esprit de finesse non riuscirai ad andare al di là dell’essenza, verso la quintessenza e, persino, la sestessenza… nel mondo e nell’inframondo che stai tentando di perlustrare vi è un abnorme sviluppo delle interferenze e si moltiplicano le affinità e le divergenze tra lo spiare pratico-politico e il sordido agire geostrategico” (p 45)
… ché l’ego oscilla nel presente storico tra l’evanescenza e una convalescenza da patologia di ipertrofia immaginaria che poi si arrovescia e si sfinisce nel proprio multiplo vuoto… per Max il proprio ego o multiego rinasceva tramutando la sua abiezione in una specie di interdizione e l’auto-obiezione in una sorta di nominazione inconsulta di cose malvage ancorché veritiere che costituivano il tessuto connettivo della propri koinè: quello di un ambiente dove vigeva la logica del sospetto dentro pulsioni di schizofrenia programmata come una via di salvezza sociale esteriore, se non di salute vera e propria… chi fa il detective è un malato grave che cura il malessere, il malestare del suo ego con una reiterata domanda di accoglienza che viene quasi sempre respinta […] la formazione dell’ego transita anche attraverso la percezione aptica” (p51)
Una posizione quella palladiniana che sembra tuttavia lasciare sempre spazio al solo antidoto al discorso: il corpo. Il corpo come relazionalità prelogica.
Un io pelle, per dirla con Anzieu.
E da qui tornerei un attimo all’eros, per divertirmi nell’unico racconto dove anche Palladini sembra essersi divertito a veramente narrare, a costruire una macchina in sé conchiusa, con dei personaggi, un po’ macchiette, ma a tutto tondo, diversamente dagli altri, più attanti di pura interrogazione.
In Che cos’è un sì assistiamo all’incrocio casuale di più destini, al crearsi di una tela per incastri paralleli.In un condominio infatti si svolgono su piani paralleli le esistenze di sei personaggi. La fabulatrice notturna, che vive di pettegolezzi, e di fantasia sadiche; la psicologa paranoica, che catechizza ad un algido realismo emancipatorio il suo paziente, un attore sentimentale e dilettante, con fantasie teoriche grandiose (non è chiaro perché Palladini la chiami paranoica, ma forse, essendo separata, la vede come repressa e persecutoria, algida); la maestra eccentrica, femminista erotomane, che scopa e litiga con il viaggiatore acido, un maschio alfa rozzo, superdotato, ma anche affabulatore e creativo; un amministratore ladro e persecutorio.
Le interazioni si alternano cicliche, fino a che tutto va a massa comicamente. La fabulatrice notturna, immagina di uccidere l’amministratore, e lo racconta ad una paziente della psicologa paranoica, che, evidentemente liberando la sua autorepressione nel sadismo, convince l’attore sentimentale che sia liberatorio dare esecuzione alla fantasia omicida della fabulatrice (che così può liberare il suo sadismo nel reale). L’amministratore viene decapitato, e la sua testa gettata. A questo punto l’attore sentimentaleliberato dalla sua passività grazie al sadismo, si libera all’eros, e sposa la maestra eccentrica, che intanto ha lasciato il viaggiatore acido. La psicologa a sua volta incontra il viaggiatore acido in un locale. Anche qui, colpo di fulmine, eros selvaggio, e viaggio con lui in Africa, in the wild.
Non so quanto Palladini controfirmi.
Ma è chiaramente una piccola concessione anni ’70 a liberazione sessuale vs sessuofobia interiormente repressiva e fascistizzante.
E penso si sia divertito. Del resto le donne che compaiono in tutti i racconti sono sempre bombe sessuali fumettare, strette in abiti provocanti, con chiome fiammeggianti e gambe superlative, che siano esperte navi scuola o giovani rampanti.
Inoltre, a proposito di guattarismo rizomatico, di situazionismo, direi che comicamente qui casualità e disordine – nell’incontro dei destini – ramificano senso imprevisto, radice di altri sviluppi.
I personaggi prendono in mano il loro destino, e la morte non è un punto interrogativo, ma scelta e soluzione, forse addirittura giustizia, secondo una versione ludico voyeuristica (la decapitazione) del normale sadismo insito nella struttura del reale. Un ritorno ludico a quel De Sade di cui Palladini è sempre stato serioso cultore ed adepto teorico.
Qui tutto l’accadere diventa spettacolo, curiosa fenomenologia.
E inizia la svolta verso l’apertura.
Se le indagini nei primi cinque racconti (oltre che concludersi con la morte) avevano spesso a che fare con scomparsi (la realtà si sottrae), ora l’indagine è giornalismo, volontà di sapere, di testimoniare.
Giornalismo nelle forme – attraverso una sfinente frammentazione in sequele di interviste – di un dibattito tra scetticismo e fede, mentre scorrono, nelle interviste, politici assurdi corrotti lascivi, e una miriade di balzani artisti, militanti, spettacoli, a vario titolo esemplificativi dell’assurdità, e di teorie le più varie su arte e mondo.
Ma tra scepsi e tentazione di omologarsi ai colleghi, al ribasso, e per quieto vivere, la giornalista realizza che indagare esplorare testimoniare ha comunque senso, anche se fallimentare nel rinvenire e fotografare un senso univoco su verità bene male.
Ha senso, e lei dice sì al suo lavoro, e così dicendo, sì a se stessa e alla vita.
Quel sì che aleggia nel finale del racconto precedente, Che cos’è un sì appunto, quando la psicologa dice sì all’eros e all’avventura.
Non solo quindi rivaluta la navigazione nel dubbio, “questa skepsis, questa dubitevole ricerca nei millepiani della realitudine” (p 173), ma tramite la voce di altri (e forse di Palladini) rinviene ancora un senso del sacro, “soltanto la poesia sa riattivare il senso del sacro” (p 153), attribuito sì alla poesia, ma per estensione, nella comune tensione alla verità, anche al giornalismo.
Dal detecting, al giornalismo.
E’ poi la volta del cinema e dell’oniria, negli ultimi tre racconti.
E qui l’indagine del possibile si fa immaginazione potenziale.
Se nel nono racconto si immaginano microcanovacci di film sperimentali, nel successivo, Geoxiana014 siamo nella sfera del fantastico, forse in un futuro, dove assistiamo al lungo viaggio di un regista in una terra ignota, alla ricerca di locations e idee.
“non riusciva proprio a ricordarsi come fosse arrivato a Geoxiana […] era partito per fare alcune locations […] di cosa parlava il suo film? [come Godard] prima di scriverlo doveva intravederlo in una serie di immagini deragliate […] aveva in mente soltanto una iniziale flottiglia di pirati”
(pp 205-6)
Il sospetto del metanarrativo è presente costantemente.
E’ difficile distinguere se gli infiniti filosofanti che compaiono nel libro diano voci a possibili frammenti di pensiero palladiniano, o siano caricature dell’infinità di inconcludenti teoresi che si scontrano nel caos del tutto presente.
Ma certo resta suggestivo che si stia parlando di ciò che muove la regia e il metodo di questo libro, cioè l’inseguimento di una serie di immagini deragliate, da cui nasca un film, una coerenza. E quando alla fine confessa alla sua occasionale compagna di avventura, incontrata già lì, nel non-luogo, che il film non lo ha visto, che non c’è nulla, e pare ripiegare su un film sull’impossibilità di fare un film (fellinianamente), ancora sembra essere la voce di Palladini, al bilancio di quanto appena scritto.
Ma quello che conta, come diceva il poeta, è il viaggio.
“Sì, Geoxiana è stato il nonluogo che è diventato una nostra comune ideale patria o matria
[…] addio a noi, ma non alla grammatica dell’altrove”
(p 228)
E se l’altrove non è qui, nel non luogo, forse è nel non-tempo, o nella presenza di tutti i tempi, cioè alla fine nella memoria. Bisogna farsi cronoalieni, come recita il titolo dell’ultimo brevissimo racconto, dove alla fine, rifatto ragazzo, ma sempre vecchio, l’autore rivisita la casa dei genitori. Prigioniero del passato, ma con la consapevolezza di avere vissuto nel futuro.
Vecchio e giovane contemporaneamente, non felice né infelice.
Un libro labirintico, cunicolare, faticosamente in frammenti, mai facile o riposante, ma che costringe alla continua fatica dell’interpretazione e del dubbio, allo sport del gioco degli specchi obliqui. Intelligente e maledetto nel suo concedere niente al lettore.