Considerabile alla stregua di un Vangelo per chi, come me, non è indifferente all’influenza culturale e politica che lo sport più praticato al mondo esercita da oltre un secolo sulle società, sui governi e sulle persone. Un libro che ritengo essere più alla portata di appassionati di storia che non del “calcio giocato” nel senso nazional popolare, poiché aiuta a tessere le fila di un’intricata maglia che si chiama Novecento, il secolo breve più burrascoso ed atipico della storia dell’uomo.
Il giornalista cosmopolita Simon Kuper fornisce un ritratto dello scacchiere politico internazionale utilizzando come catalizzatore il Calcio che, con la sua potenza comunicativa ed emozionale, è divenuto (insieme alla musica e forse ad alcuni tipi di arti figurative, ma comunque con ampio distacco) punto fermo delle masse, sfogo di milioni di persone e rappresentanza di esse, uno specchio del modus vivendi di nazioni, molto più dei loro governi.
Il libro si presenta come un’indagine sociologica sul campo, un’analisi storica ed un racconto ricco di humor attraverso 22 Paesi con testimonianze di calciatori, politici e tifosi, a partire dal drammatico e pretestuoso Mondiale 1978 , organizzato e vinto dall’Argentina militare di Videla, la cui finale registrò il più alto tasso di rapimenti e conseguenti scomparse di giovani studenti e oppositori politici, altresì battezzati dalla storia come desaparecidos, il tutto nella logica strategica del panem et circenses per spostare la soglia dell’attenzione pubblica altrove.
In quest’ottica di violenza associata allo sport, si articola uno dei capitoli più corposi dal titolo “il calcio è guerra” che riflette su come l’evoluzione del secondo dopoguerra ha lasciato in Europa – per nostra fortuna – un vuoto da colmare, quello dell’odio verso qualcuno da combattere e da sconfiggere: ebbene il ruolo che è stato attribuito al calcio, in Europa in particolare, è quello di essere la nuova valvola di sfogo d’odio nei confronti dell’altro, del diverso, e di conseguenza è divenuto, de facto, il più grande accentratore d’identità nazionale.
Ad esempio il sentimento di rancore covato dagli olandesi nei confronti dei tedeschi ha trovato terreno fertile sul campo da gioco fin dalla finale mondiale persa dall’Arancia Meccanica del ’74 – il centrocampista fiammingo Van Hanegem dirà che i tedeschi “hanno ovviamente gli antenati sbagliati” – per arrivare poi alla vittoria, acclamata come un successo bellico, nell’europeo ’88, con milioni di tifosi in piazza che non si vedevano dai tempi della Liberazione.
Kuper porta svariati esempi di come il calcio è divenuto la nuova forma di “muovere guerra” di ogni tipo, da quella religiosa tra le due compagini di Glasgow, Celtic (cattolici) e Rangers (protestanti), a quella geopolitica tra i catalani del Barcellona ed i soldati blancos della corona castillana del Real Madrid, passando per le manifestazioni violente nell’Europa dell’Est, soprattutto dopo il crollo della Jugoslavia. Grande attenzione è dedicata al calcio nell’Unione Sovietica; solo lo stadio garantiva ad una folla riunita di poter esprimere il proprio odio nei confronti dei club legati alla polizia segreta (le Dinamo) e all’esercito (le CSKA). Altri capitoli riguardano il calcio africano, le passioni dei tifosi Bin Laden e Gheddafi, la caduta della Thatcher “per colpa” di Gascoigne e soprattutto l’interessantissimo capitolo dedicato all’ascesa di Berlusconi che, forte del suo status di trionfatore in Europa con il Milan, vinse le elezioni nel ’94 con un partito d’ispirazione semantica da stadio: Forza Italia.