Bricolage metafisico circense sull’apocalisse, in salsa d’assurdo

Genio visivo, ritmico, tribale, e sentimentalismo politico

Uno scatenamento presto ci investirà, con una splendida e surreale grammatica gestuale, ritmica, visiva, tribale. Ma si inizia calmi. Esce in avanscena Camille Decourtye, e per dire come sempre di spegnere i cellulari, monta delle comiche sulla dipendenza, per virare poi all’esistenzialismo relazionale, in chiave esortativa.  Ci si guardi intorno. Siamo insieme. Se si guarda di lato, e non fisso sullo schermo, ci sono gli altri. 

Baro d’evel

Si apre così, al Teatro Argentina (Roma 26-28.9.2024), lo spettacolo dei Baro d’evel, “Qui som?”,mostrando subito due caratteristiche del loro stile – d’alleggerimento, ma anche parziali limiti.

Il comico ed il sentimentalismo politico. Sul sentimentalismo politico – il lato più debole – torneremo alla fine. Per quello che riguarda il comico nello spettacolo ha una funzione di straniamento marionettistico, ma anche di veicolazione dell’assurdo, con la leggerezza beckettiana di Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot, e la stralunatezza gestuale di Kantor.

Ma di cosa stiamo parlando? O meglio di cosa ci stanno parlando loro? 

Questo meraviglioso gruppo teatrale catalano, all’origine circense, nel senso alto di Ariane Mnouchkine, e che del circo mantiene la multiformità dei linguaggi: danzatori, acrobati, performer, musicisti, cantanti, ceramisti, ma soprattutto in tutto ciò, attori.

Due sono le linee tematiche che innervano lo spettacolo, una più esistenziale, una politica.

Da un lato si allude all’apocalisse ecologica prossima ventura, che diventa il mostro generato dall’uomo e che l’uomo fagocita. Questo il dettato politico. 

Dall’altro, sullo sfondo, come un prima e un dopo, come causa ed effetto, la crisi d’identità dell’uomo (Qui som? Chi siamo?). 

Solitudine, incomunicabilità. Il mondo come un giocattolo assurdo di un Dio assurdo, degradato, caricaturale, forse impotente, forse assente. Forse rabbioso e frustrato, lui stesso solo, rotto il legame di senso con l’umano, che qui parrebbe rappresentato soprattutto dai bambini.

I bambini compaiono infatti qua e là, come sguardo accusatore, domanda, forse talvolta ingenua speranza d’innocenza. 

Così, dopo una parentesi beckettiana alla Godot 

          “LEI – Che stai facendo?  / LUI – Sto riparando il vaso / LEI – Non è male. Dobbiamo scoprire cosa 

           succederà ora / LUI – Arriverà / LEI – Non bisogna arrendersi… Da dove arriverà?”

la montagna dietro di loro, con un tremito, partorisce una bambina, che subito silente se ne va.

La stessa bambina più avanti viene ripartorita dal monte con un vecchio bisbetico, con una sacca bianca. Lo scambia per Babbo Natale (la speranza). Regali per me. Lo abbraccia. Lui da bisbetico a commosso. Ma ora lei lo respinge, disperato e se ne va. Non sei lui ! Puzzi.

Babbo Natale. Dio è morto anche per la bimba. Dio è un vecchio bisbetico abbandonato e disperato?

Del resto lo spettacolo, pur proponendo la lotta, comincia tutto sul tema dell’inabilità, dell’impotenza, mischiando il Beckett di Giorni felici alla rabbiosità calibanica in Shakespeare, e alla regressione al primitivo come possibilità di riscatto.

Si apre con le comiche di un vaso da riparare (la creazione), dove il tornio per inabilità partorisce un serpente verticale, che poi cade in mano come un fallo. Rito di fertilità? O castrazione?. 

Ma segue con il sacco bianco che si anima dietro al vecchio, fino allo spuntare di una testa prigioniera, rabbiosa e borbottante, che si muove a strattoni, dentro al sacco come una lumaca.

E’ il Calibano spodestato della sua isola, da un falso dio buono?

E quando la montagna (che è l’apparato scenico centrale di tutto lo spettacolo) –  muovendo le sue fronde cartacee nero verdastre – si erge improvvisamente verticale e gigante, ondeggiando tempestosa, tra rumori di tuono e maroso … Ecco dall’alto penzolare un uomo capovolto. Uomo scimmia, primo uomo, regressione al primitivo? E più avanti, sempre dall’alto, di fronte alle querimonie politico sentimentali di lei, ora esplode appeso il vecchio, rancoroso ed urlante (un dio regredito, preda della natura?).

Ribellione e regressione. Impotenza ed energia tribale si alternano ad innervare lo scatenamento fisico, nella parte centrale dello spettacolo, tra danza gesto maschere.

Dopo il vaso riparato entrano in gruppo, neri sul nero della parete montagna.

Guardano il pubblico, muti, attoniti (come nei banchi gli allievi della memoria-morte in La classe morta, di Kantor). Al centro, a dirigere in scena, come Kantor, lei, che poi si volta e eleva lungamente un canto sublime, quasi bachiano, mentre loro, per contrasto comico pessimistico, deidealizzante, cominciano a franare, a onde, con effetto domino crescente.

Cadono e si rialzano, sempre più infarinati (farina a terra), grigio neri.

Poi escono, e rientrano col volto coperto da vasi di cartone, e danzano a tastoni, alla cieca. Cancellazione del volto e dell’umano? Assenza di senso direzione rapporto?

Ma poi intingono le mani nel sangue, bucano e modellano il cartone a maschera tribale – e dopo momenti bacchici di risa scomposte, e lui che al microfono invoca giustizia e futuro – parte una danza ritmica potente a piedi battuti, che sarà a più riprese leitmotiv del riscatto possibile, della rinascita vitale nel primitivo.

L’uomo che si impadronisce degli dei e della natura.

E così si susseguono alti e bassi, impotenza, danze, canti, resurrezioni, fino alla grande immagine finale, di grande effetto.

La montagna-natura, montagna-mostro, ora erettasi a gigante parete in tempesta, natura che fagocita e partorisce, ora partorisce rumorosamente, a marosi, una marea crescente di plastica, dal cui cumulo, smuovendolo come un brivido, emergono, disseppellendosi, alcuni di loro.

Gattonano, strisciano, sollevano nubi di polvere bianca (Waste land alla Eliot? Siccità?). 

Poi corrono, cadono, si rialzano, gridano disperati.

Un lungo intervallo di terra desolata, a cui l’uomo reagirà con la lotta, che si concretizza nell’immagine di loro che a terra insieme spingono faticosamente la plastica sotto la parete.

La speranza e la lotta vincono dunque, e l’immagine è bella. 

Peccato la caduta quando l’immagine si fa parola sentimento predicazione, cadendo in quel sentimentalismo politico, anche un po’ didascalico ed ingenuo, di cui si accennava all’inizio.

Un qualcosa che guasta la polisemia aperta e dinamica che domina fino a qui, con aperture di senso plurime.

Nella pausa da terra desolata – dove due creature bianche si muovono nel bianco silente della plastica, con triste postura beckettiana (lei che spinge carrozzella con disabile, in stile Finale di partita) – l’immagine infatti è contraddetta da un querulo e tremulo e fascinosamente espressionisticamente in balbettio sovracuto concionare di lei sulla necessità di reagire, di non buttare via la bellezza. Coraggio e non passività.

Peggio ancora. Il seguito aveva poi riassorbito tutto in ciò in altre immagini e scatenamenti.

Ma … ad applausi conclusi, altra predica esortativa al pubblico. Azione e coraggio, contro il vuoto.

E poi, a captatio benevolentiae, giù in platea, tutti in marcia la banda degli attori suonando, urlacchiando lei lo stesso messaggio con tono circense e gramelot plurilingue, col pubblico che ingenuamente si abbandona a facile delirio partecipativo.

Qui Som? | Festival 2024 | Romaeuropa
Baro d’evel

Non è l’ottimismo che qui si vuole criticare. Ma il volontarismo didascalico che esorbita la scena, e ne guasta la ricchezza linguistica. Comunque uno spettacolo che merita, che trasuda ed esonda.  E a cui si perdona la chiusa movimentista.

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Qui Som? – Di Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias – Compagnia Baro d’evel – con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias o Claudio Stellato, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert – collaborazione alla regia Maria Muñoz/Pep Ramis (Mal Pelo, ensemble di danza contemporanea) – collaborazione alla drammaturgia Barbara Métais-Chastanie – Teatro Argentina di Roma dal 26 al 28 settembre 2024