Samuel Beckett è stato spesso visto come uno scrittore dell’assurdo, lo scrittore dello sguardo tragico, della disperazione irrimediabile, dell’eterna solitudine e dell’incomunicabilità. Ma per cogliere tutta l’originalità letteraria di Beckett, è necessario allontanarsi dallo sguardo semplicistico che lo riduceva a scrittore bizzarro i cui testi non avevano alcun senso, pericolosamente nichilista che distruggeva tutto. Credo sia opportuno restituire a Beckett il giusto respiro filosofico e un’attenta riflessione sull’uomo che emergono dal suo lavoro.
Nato nei sobborghi di Dublino il 13 aprile del 1906 da una famiglia protestante in un Irlanda cattolica, fece una brillante carriera accademica e iniziò a scrivere e pubblicare in inglese, negli anni ’30, saggi, romanzi, racconti; ma è in francese che all’inizio degli anni ’50 incontrò la notorietà.
Un’infanzia piuttosto felice, ma aveva “poca predisposizione alla felicità“. Proveniente da un ambiente relativamente ricco, è sempre fuggito dalla ricchezza materiale scegliendo l’austerità. Fece numerosi viaggi tra Francia e Inghilterra prima di stabilirsi definitamente a Parigi nel 1938. Introverso, solitario, fragile, decise di abbandonare i doveri accademici maturando una riluttanza per la disciplina e per la conoscenza costituita, dedicandosi anima e corpo alla scrittura.
Dotato di un talento poliedrico, che gli consentì di cimentarsi con i romanzi, il teatro, la radio, la televisione, il cinema, oltre che nel saggio critico; il suo lavoro è stato un continuo interrogarsi su ciò che l’uomo non può dire e affermare, ad osservare e descrivere il vuoto della conoscenza fondata su un’affermazione accademica giusta o sbagliata, sull’esistenza e sull’impossibilità di afferrare e conoscere la natura delle cose.
La grandezza di Beckett è stata quella di andare fino in fondo, usando le parole per porre fine alle parole: attraverso il linguaggio del caos, le parole incasinate, la sintassi sgangherata con cui il possibile “io” cerca di vedere sé stesso. L’uomo è incapace di conoscere sé stesso, ma al contempo non sopporta di non conoscere sé stesso.
Esseri indolenti, emarginati, vagabondi, costretti a letto, striscianti, vecchi, malinconici. Una orgia di “falsi esseri” che popolano l’universo beckettiano con le loro poche manie più o meno meccaniche, come quella di parlare senza dire niente.
L ‘”eroe” beckettiano esiste solo a tratti, a intermittenza, quando parla nonostante tutto, o anche quando tace perché non è tutto tacere, ma occorre comprendere anche il tipo di silenzio che si mantiene. E questa strana parata di spettri umani, questa “galleria”, uscita dall’immaginazione di un uomo più riservato di un segreto, questo asceta della letteratura, interamente dedito a chiarire ciò che in lui è l’oscurità, fino alla consacrazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1969. Beckett, un irlandese che a quasi cinquant’anni quando Molloy e Aspettando Godot lo strapparono all’anonimato per una tardiva notorietà.