“Le libertà non vengono date. Si prendono.”
Elsa Morante nel 1974 congela in questa frase lo spirito volenteroso, speranzoso e talvolta riottoso che muoveva la gioventù nata subito dopo la guerra e cresciuta nel periodo di massimo fermento popolare della storia repubblicana. In questa illuminante mostra fotografica su “Gli Anni Interessanti” – termine ricavato da un altrettanto interessante saggio sul Novecento dello storico Hobsbawn, il cui titolo recita l’ossimoro Il secolo breve – presso il Museo di Roma in Trastevere. Gli anni in questione vanno dal 1960 al 1975, e sono identificabili come il periodo di raccordo tra la spensierata leggerezza del boom economico e il contraltare impegnato e talvolta drammatico degli anni “di piombo”.
È dunque un periodo storico in cui si possono evincere già quei tratti sociali, culturali e politici che sfocieranno nei terrorismi rossi e neri, ma al contempo si presentano come “anni facili”, in perfetto, ambivalente, stile italiano.
Le radio trasmettono la spensieratezza delle canzoni di Gianni Morandi, Edoardo Vianello e Rita Pavone mentre gli scontri tra polizia e studenti si fanno sempre più accesi nelle piazze; si balla sulla pedana per due del Piper, ma intanto si combatte per il divorzio, nascono le Brigate Rosse ed i movimenti femministi più infervorati. L’allestimento della mostra segue in parte questa linea argomentativa, mettendo in sequenza momenti di trascurabile felicità e highlights della complessa e violenta realtà degli anni Sessanta e Settanta. Oltre al contesto politico-sociale fermentato, sovrano assoluto degli anni ’60-’70, il percorso espositivo racconta a tutto tondo sia gli eventi storicamente più rilevanti, sia semplici scene di vita quotidiana, aventi però valore di civiltà e di testimonianza.
È il caso dei lavoratori nelle fabbriche avanguardiste del Nord, messe chiaramente a paragone con l’arretratezza delle condizioni del Sud, nell’eterna questione del divario incolmabile nord-sud; od ancora la mamme che, sorridenti, vaccinano i figli, gli imbarchi nazional-popolari per la Sardegna, le borgate romane brutte, sporche e cattive, etc etc.
Sullo sfondo delle vite della massa, i grandi avvenimenti positivi e naturali scrivono la storia locale e mondiale; lo sbarco sulla Luna degli americani, l’alluvione di Firenze, il disastro del Vajont, la costruzione del ponte Morandi, i rapimenti delle BR, il suicidio Tenco al Festival di San Remo…
È la fotografia stessa una protagonista degli anni del Dopoguerra, elevandosi a principale garante della memoria storica sulla scia del ruolo comunicativo del cinema, fornendo ritratti quadrati 6×6 della realtà, con un abuso del flash anche di giorno per enfatizzarne il prodotto.
Filo conduttore che lega l’immaginario comune italiano in quegli anni (ed anche tutt’ora) è il galoppante processo di americanizzazione della penisola, nella logica dei due blocchi divisi dalla Cortina di ferro.
Se gli anni Cinquanta avevano visto il boom economico postbellico grazie ai soldi del Piano Marshall, il piano d’investimento da tripla A meglio riuscito nella storia statunitense e non solo, gli anni Sessanta e Settanta avevano il compito di “risarcire” il debito con l’acquisizione totale del modello a stelle e strisce, a partire dalle arti (su tutte cinema, musica e moda) fino ad arrivare alla politica monocolore DC.
La mostra si presenta dunque come una sorta di guida descrittivo-narrativa dei visitatori boomer che ricordano la loro giovinezza e raccontano vicende storiche personalizzate ai nipoti adolescenti con, in allegato, l’orazione pedagogica sulla morte del dibattito, su una cultura che non c’è più quando prima “si leggevano i giornali in classe”, si scendeva in piazza e si combatteva per le proprie idee.