Appena trascorso il Natale, il clima gioioso e spensierato delle festività ancora aleggia per le strade. Non vi è miglior modo, così, che allietare le serate di quest’ultima parte dell’anno che volge al termine e dare il benvenuto al nuovo anno che si appresta ad iniziare, con una divertente commedia che sembra mobilitare una muscolatura ormai in disuso: quella del riso. Leggera – ma non per questo banale – la commedia, scritta e diretta da Marco Cavallaro, esamina una tematica così attuale come quella della natalità. Mai come oggi, difatti, viviamo in un’epoca in cui intorno ad un simile argomento non fanno che ruotare una serie di gravose preoccupazioni, causa o conseguenza di un repentino calo delle nascite.
Quella di Amore sono un po’ incinta – presentata nella sua settantaduesima replica sul palco lidense del Teatro Nino Manfredi – è la storia di due giovani (“non” più giovani) indipendenti, soli ed in cerca di condivisione: per Maurizio (Marco Cavallaro) e Roberta (Sara Valerio), entrambi reduci di storie d’amore mai decollate, fatale sarà una serata brava in discoteca. E quale miglior focus sul problema natalità, se non una gravidanza indesiderata? Ebbene sì, ignari di quale sarebbe stato il loro futuro, il fato ha giocato il suo ruolo. Ad unire i due protagonisti – apparentemente così distanti – e a scombinarne le vite sarà proprio l’arrivo della loro nascitura. Una voce, la sua, nota ai più – grandi e piccini: sì, perché stiamo parlando dell’intramontabile personaggio di Lisa Simpson affidata al talentuoso doppiaggio di Monica Ward.
Una criticità, così, quella gravitante intorno il tema della natalità, portata in scena con leggerezza e spirito goliardico in un gusto tipicamente comico. Senza nulla togliere alla bravura del duo Cavallaro-Valerio; la coppia a tenere alta l’asticella del tessuto comico è proprio quella formata dai rispettivi amici Armando (Guido Goitre) e Ugo (Marco Maria Della Vecchia): tra un ammiccamento ed una “gambetta” e tra un intercalare dialettale e l’altro; il duo comico restituisce dignità all’ormai desueta figura della macchietta.
Un pubblico in preda a spontanee e fragorose risate, pertanto, non può che essere la risposta ad uno spettacolo ben riuscito e che mette in prima linea l’arte recitativa degli attori in tutta la sua artigianalità, conferita altresì dalla bidimensionalità e mobilità scenografica – curata ed ideata da Federico Marchese – che, se ai più “avanguardisti” possa restituire la restaurazione dell’artificialità scenica; personalmente ne conferisce una nota nostalgica verso un passé ancien.
Reduci di un periodo in cui il sorriso – e ancor più il riso – sembrava fosse un miraggio, credo che oggi quella che si suol definire una “grassa risata” sia la miglior risposta ad un capitolo che si chiude ed uno che è tutto ancora da scrivere.