Una contraddizione irrisolta
Dal 1999, ogni 25 novembre, si celebra la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne, e quindi, come è anche giusto che sia, a ridosso è tutto un fiorire di spettacoli e iniziative a tema.
In tal senso si muove anche Apparenze (Roma, 6-7.12.2024) il tentativo di collage pirandelliano messo in opera da Carrassi con attori e docenti della SetStudio Academy. Intelligente l’idea – con alcune interessanti trovate registiche, e retta con perizia attoriale dagli interpreti – ma forse necessitante di maggiore elaborazione, soprattutto per quel che riguarda il filo tematico, e di conseguenza, a ricasco, l’unità del registro artistico, per tono, immagini, ritmo.
Oggetto del montaggio sono i due atti unici di Pirandello La Morsa (1892) e All’uscita (1916), e si suppone che il filo tematico debba essere il femminicidio. Superficialmente infatti in entrambi i testi – vittima della gelosia – muore la moglie. Tuttavia, scavando appena in po’ le differenze sono notevoli, a cominciare dal tono dei testi, decisamente naturalistico il primo, stralunato e surreale il secondo, cosa che pone problemi di unità recitativa. Invece i testi sono inanellati uno in fila all’altro, con una labile sutura visiva, di cui vedremo.
Brevemente intanto ripassiamo il plot.
Nel primo testo il marito, che ha scoperto la tresca della moglie con l’amante, la scaccia (levandole i figli) e con il suo disprezzo e la pressione psicologica, la spinge a suicidarsi, dando poi però la colpa del tutto all’ amante vigliacco. Un classico dramma borghese, vagamente sulle piste di Anna Karenina.
Il secondo testo si svolge invece in un surreale oltre tomba, un limbo dove un ultimo rigurgito di passione e sofferenza (con relativi bilanci) dovrebbe preludere al distacco dalla vita e alla dissolvenza delle anime.
In tal senso va il discorso pedantemente raziocinante di un giovane filosofo, in contrapposizione alle fiamme di passione degli altri. Il marito morto, la moglie uccisa dall’amante, e sia pure solo nominato in absentia, l’amante stesso, suicidatosi sul corpo dell’amata.
E poi…
Altre figure onirico simboliche rendono il testo gravido di inquietudine.
Un bimbo che tiene in mano una melagrana, ultimo desiderio da realizzare per poter scomparire. E poi, di passaggio, vivi – ma simili a morti – fuori dal cimitero, un contadino, una contadina, un asino e una bimba. Tutte figure di innocenza, vita, desiderio, dalla donna disperatamente rincorse.
Due testi altamente asimmetrici.
Il primo è il dramma piccolo borghese del matrimonio proprietario, dove l’amante scoperto è un vigliacchetto che lascia lei sola, il marito un maschio tradizionale, senza amore, e lei la stanca vittima di un gioco delle parti dove poco è l’amore.
Nel secondo si inalberano vertigini di pietas e contraddizioni, come nel miglior Pirandello.
Così al marito morto dispiace il destino infelice della moglie, dove la sua morte rende marito l’amante, e dunque la trasgressione felicità presto soffocata.
Un marito che rimpiange la vita, ma non la moglie: i fiori, il cielo, il canto degli uccelli.
E la moglie, uccisa dall’amante che ormai disprezzava come noioso, tenta di ridere sardonica della situazione, ma è in realtà disperata, come nella ballata di De André.
Lui ammazzandola, poi si suicida sul corpo di lei, con un bacio insanguinato.
Dunque ha sprecato un amore umiliandolo. Ha sprecato la vita.
E fugge inseguendo le apparizioni, i bambini del desiderio.
Stando alla cultura attuale, sarebbe un testo da condannare, dove il femminicida sta col suo suicidio alla massima intensità dell’amore romantico, e lei sarebbe la colpevole.
Amore romantico da contrapporre alla clausura proprietaria del matrimonio borghese così tanto, che il marito parteggia per lei.
Come del resto il marito del testo di lì a poco a venire, quattro anni dopo, Sei personaggi in cerca d’autore (1920), che addirittura favorisce la relazione della moglie, sacrificandosi per la di lei felicità.
Come accennavo, il punto debole è l’incastro dei due testi, che restano giustapposti, e dove la transizione è ottenuta per via visiva, all’insegna del bianco silenzio della mestizia del lutto. Quando infatti l’amante del primo testo – un giovane Francesco Chiarello, più convincente nel silenzio dei gesti che nel parlato – rimane solo in scena, dopo la morte di lei, si siede a destra, e posa a terra, sopra le scarpe che si è levate, il fazzoletto bianco insanguinato, e sul catafalco-sedile, prima coperto da un panno bianco, una rosa rossa.
Poi si alza, e tira un bianco velo trasparente, a diaframma-sipario, tra pubblico e scena.
Il lutto, la morte come offesa al vivere, il velo trasparente che separa l’interiorità dei sentimenti dalla violenza della realtà.
Diventa il tema unificante – a posteriori – e apre al secondo episodio, nel cimitero, dove la tematica è la querelle dell’apparenza.
Cosa è vero? La vita? La morte? Quali dei sentimenti agiti?
E il velo come limbo ed evanescenza.
Nel primo episodio la recitazione è ingabbiata in toni e movenze statici, da micro conflitti domestici, e solo un po’ si anima man mano che il marito rotea minaccioso intorno alla moglie, rompendo quelle distanze che prima articolavano anche la recitazione, creando la breve esplosione di disperazione di lei, pre suicidio. Le distanze prima, nella ristrettezza del palco, erano state il segno dell’interazione, anche se forse troppo raggelandola. Tutto era agito attraverso la mimica del non contatto: indifferenza, pacatezza straniata, girarsi le spalle, non guardarsi, il tutto contraddetto dal frenetico e nervoso sventagliarsi di lei.
Un registro recitativo che se efficace tra moglie e marito, meno credibile e un po‘ meccanico appare all’inizio, con l’amante.
La transizione al secondo episodio libera invece ben altre energie – coerentemente alla maggior complessità del testo – forse anche perché ciascuno fa per sè.
I tre sono infatti dei monologanti: il marito in mestizia e nostalgia; il giovane filosofo in enfatica esagitata predicatorietà; e la moglie istericamente provocatoria e disperata, in esplosioni vocali e gestuali.
C’è dinamica. C’è immagine.
Come all’inizio, quando la voce off recita la nostalgia del marito per la vita sprecata, mentre lui mesto e silente, col volto appoggiato al velo-sipario, come a carezzare la propria tristezza, come a rincorrere le nebbie del passato, fissa lo sguardo attonito nel vuoto. Un vuoto e un silenzio che danno risalto all’improvviso ritorno della voce nuda di lui. Anime nude appunto, col nervo scoperto. Vuole redimere i dubbi sul suo sì alla vita, ed esclama, “Il senso della vita sfuggiva alla mente, non al corpo”. E poi dilaga il dolore per la moglie che sa destinata ad essere uccisa dall’amante, un dolore che lo abbatte in ginocchio. Un Ivan Moretti assai più sfaccettato ed intimo qui, pur se non disprezzabile nella foga violenta ma unidimensionale del primo episodio.
Monologhi?
Meglio dire soliloqui, dato che solo apparentemente il discorso è rivolto all’altro.
Tutti più intensi nel secondo episodio, nella loro separatezza che gira su se stessa.
Ma certo la parte da leone qui è per la moglie, e dà modo a Oriana Celentano di scatenare tutte le proprie corde, compresse nell’episodio precedente.
Invade così la scena, invasata e sardonica, in controcanto al marito inginocchiato, ridendo dell’amante, e dell’assurdo di ritrovare lì il marito.
Volteggia in un’isterica ebbrezza da discoteca.
Ma appunto. E’ l’isteria dell’assurdo, della consapevolezza amara ed inutile dello spreco.
E lentamente rallenta.
Si copre con pudore il seno insanguinato, e mentre la scena vira a luci rosse, racconta di lei lasciata dall’amante insanguinata e morta sul letto, su cui si mima riversa.
Poi ricorda lui che si suicida su di lei, e il bacio insanguinato, che ora – crollata in ginocchio – rievoca con moto convulso delle mani.
Un toccante acme patetico, portato poi allo stralunamento dal sovrapporsi di un delicato ed ossessivo suono di carillon, sulle cui note, a mani levate, disperatamente, invoca “Vieni bimbo!!”
Non vediamo il bimbo col melograno del testo pirandelliano, ma il carillon ce ne suggerisce un evanescente immagine di sogno.
Poi lei balza in piedi, invocandolo, come personificazione del suo desiderio.
E corre via.
Resta soltanto il giovane filosofo, perplesso, solo, dubitante.
Ed il pubblico inizia ad applaudire.
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Apparenze, da Pirandello – Regia e adattamento Francesco Carrassi – Assistente alla regia Alessia Della Vedova – Con Oriana Celentano, Ivan Moretti, Francesco Chiarello – Produzione APS Triangolo Equilatero, Teatro off Studio e Set studio Academy – Teatro Off Studio di Roma, 30 novembre e 6-7 dicembre 2024
Foto di copertina Ivan Moretti e Oriana Celentano