Amleto. La vendetta si ripete

«Siamo stati tutti uccisi per vendetta», ossia siamo un popolo di morti a cui la vita ha riservato il solo valore della vendetta. Lo erano all’epoca quei valorosi principi e lo siamo ora noi, meno valorosi e ugualmente (se non di più) arrabbiati e sempre pronti a sferrare il colpo: che sia quello sparato con la pistola nelle faide di malavita, o il fendente di una lama che uccide al centro commerciale, cediamo inesorabilmente il passo all’impeto del germe vendicativo.

E chissà che non rientri nella sfera delle vendette anche questo nuovo esercizio intellettuale che ruota intorno al principe di Danimarca: una nemesi giocata ai danni del tedesco Heiner Müller, il quale nel 1977 scrisse per il teatro «Hamletmachine». Come Fortebraccio, principe di Norvegia, il cui padre è stato ucciso dal padre di Amleto, vuole attaccare la Danimarca per vendicare la morte del genitore, così Roberto Latini riscrive con la punta di una spada affilata la trascrizione dall’Amleto shakespeariano già osata dal Müller. Si sa, anche gli scrittori non disdegnano la vendetta, ma per fortuna usano la penna che pure è un’arma, ma tutt’altro che cruenta.

Non è un caso che l’autore scelga per il suo pamphlet un titolo, Amleto die Fortinbrascmaschine, che affonda la dolce lama nella lingua tedesca: per i più curiosi, «Hamletmachine» fu riproposto in Italia nel 1988 per la regia di Federico Tiezzi, successivo di un solo anno a quel fortunato spettacolo («Hommellette for Hamlet») con il quale Carmelo Bene si vendicò anch’egli di Jules Laforgue che pure provò nel XIX secolo a stuzzicare Shakespeare sul terreno di Danimarca già minato dalla critica classica.

È evidente che la storia si ripete, e con le stesse identiche vendette.

E di Carmelo Bene, Roberto Latini (oltre a citarlo) riprende, per il suo icastico compendio della tragedia che è anche un po’ sberleffo, qualche atmosfera, molti toni di voci che si alternano a respiri profondi riportati dalla manipolazione elettronica del microfono e soprattutto ripropone quegli assurdi tempi di recitazione scomposta e a volte frammentaria che la sperimentazione di Bene fece esplodere all’epoca delle famose cantine d’antan.

L’Amleto di Latini, tuttavia, ha un pregio innovativo che non deve passare inosservato: riesce a punzecchiare di continuo l’aurea della tragedia con tocchi di ironia assai affettati: per cui, quando si parla sfacciatamente della vendetta che è necessaria, Fortebraccio diventa un padrino siciliano che rievoca la saga mortale del romanzo di Mario Puzo, reso celebre dal film di Coppola; e quando Amleto si deve liberare del fantasma del padre che nei sogni lo perseguita, risponde – per contraddirlo e per allontanarlo da sé – che a lui il presepe non gli piace: «No, nun me piace». A Eduardo questa comparsata nella tragedia più famosa del mondo lo avrebbe certamente inorgoglito, viceversa non saprei di quanto lustro si sarebbe vantato un Amleto… in casa Cupiello!

Malgré la boutade, l’opera di Latini si sviluppa sempre su un tessuto letterario di spessore, con riferimenti a volte volutamente fuorvianti (da Shakespeare, per esempio, si salta a Euripide): all’improvviso, infatti, si cita la tragedia di Polidoro, anch’esso ucciso per vendetta. Il messaggio, quindi, è chiaro e semplice: la vendetta è un fenomeno nato molto prima di Amleto e che ancora non si è arrestato; al cospetto di questa orrenda realtà, ciascuno di noi avrebbe il dovere di soffermarsi un attimo a riflettere – sul più famoso dubbio della letteratura mondiale – se sia meglio «essere o non essere», «perché il delirio è molto abile a creare fantasmi». Perfino il principe di Danimarca, al finale, stretto in una armatura medievale che fa presupporre il peggio, non riesce a venirne a capo, nonostante Fortebraccio continui a sollecitarlo imperterrito nei secoli dei secoli.

Una lode a parte meritano sia il dirompente attore, Roberto, che l’impeccabile regista, Latini. 

Amleto die Fortinbrascmaschine, scritto, diretto e interpretato da Roberto Latini. Al Teatro Basilica (Roma), fino a domenica 30 ottobre.