Alla Pelanda Liryc Dela Cruz: il rumore della riappropriazione

Nello spazio, permeato da luci rosse, tre corpi  danno avvio ad un movimento silenzioso, articolato intorno a un triangolo di terra al centro del palco. Benjamin Vasquez Barcellano Jr, Sheryl Palbacal Aluan, Jenny Guno LIanto: dapprima solo le mani, poi tutto il loro corpo viene coinvolto in  una traiettoria circolare improntata sulla ripetizione, soggetta di tanto in tanto a variazioni impercettibili. La variazione si regolarizza, è ora evidente e scandita non più solo dal movimento ma anche dalla voce: una conta ritmata, urlata, reiterata fino all’esasperazione.

Questo il primo frame della performance multimediale Il Mio Filippino: For Those Who Care To See del regista e artista filippino Liryc Dela Cruz che ha avuto luogo il 20 luglio nell’ambito del programma Rifrazioni dello Spazio Griot presso la Pelanda di Roma, accompagnata dalla mostra omonima inaugurata lo stesso giorno e in programmazione fino al 30 luglio.

A guidare entrambi i progetti la ricerca pluriennale dell’artista originata dall’atrofizzante, massiva tendenza occidentale a collegare irriducibilmente un’etnia con una specifica attività lavorativa. Declinata nello specifico in riferimento all’etnia filippina in Italia, tale identificazione svela tutta la sua erroneità poiché basata sul collegamento tra la popolazione sud est asiatica e la mansione del collaboratore domestico.

Il Mio Filippino: Dal silenzio al tonfo

Se l’iniziale dinamismo della scena si articolava sulla successione di azioni silenziose, quasi impercettibili nella loro sequenza di variazione, con l’avanzare della performance, l’elemento del rumore- introdotto prima attraverso la voce, poi attraverso la musica- si fa sempre più presente raggiungendo il suo apice al momento del tonfo provocato dai piedi sul suolo. Traducendosi come presenza, il rumore si fa veicolo di un corpo che esiste, un corpo- quello del lavoratore- che si ribella ai meccanismi di alienazione cui è sottoposto, che rifiuta la sua invisibilità e il suo silenzio, che da voce alla sua condizione. Di conseguenza la percezione su quegli stessi corpi cambia, permettendo all’attenzione di indirizzarsi alla fatica che trapela dai loro volti, all’assurdità del loro gesto frenetico, a tratti robotizzante, articolato su movimenti sincopati privati della loro intenzione.

Riflesse in fast motion le immagini sullo schermo, posto sul fondale dello spazio, mostrano stralci di vita, di storia, di guerra, della comunità filippina, poi dei volti che hanno segnato la sua storia, da quello dell’ex presidente delle Filippine Ferdinand Marcos e del politico filippino Juan Ponce Enrile fino a quello del giornalista americano Jim Laurie, ricordato per la sua attività in Asia. La video proiezione restituisce infine la figurazione dell’attuale condizione lavorativa della popolazione filippina, in seguito all’emigrazione in Italia; quella di una passività imposta che rischia di compromettere una stratificazione identitaria più vasta, di un processo di invisibilizzazione che necessita di essere spezzato.

Il Mio Filippino: Il rito della terra

I tre performers, fino ad allora distesi accanto alla grande zolla di terra, cominciano lentamente a interagirvi: uno alla volta affondano le mani in quella stessa terra per poi sparpagliarla  nella totalità dello spazio. Così come viene articolato, il movimento di dispersione assume le sembianze di un rito di riappropriazione, la costruzione di un luogo da poter abitare, un luogo dove il corpo non venga spersonalizzato, ma possa esprimersi nella sua tridimensionalità. Avvolto dal profumo “dolceacre” del terriccio che si effonde in sala , lo spettatore comincia a sentirsi parte di quell’ambiente rinnovato e osserva i performers coadiuvarsi in un’opera di costruzione: un grande tendone arancione, chiuso su tutti i lati, viene disposto al centro del suolo. Gradualmente e sempre procedendo secondo lentezza, i corpi  si dispongono al suo interno, vi si situano- ora sdraiati- come a sancire il loro riposo.

Il Mio Filippino: la mostra

Indagine sulla condizione di lavoro dell’etnia filippina anche la mostra omonima configurata come installazione  articolata in quattro video. Nei primi tre, alcune domestiche filippine ordinano e puliscono le case dei loro datori di lavoro, muovendosi meccanicamente: una danza del lavoro alienante e talvolta massacrante, un rischio di scomparsa della tradizione filippina, così come quella della loro identità, dei loro diritti, del loro tempo. Un formato più grande invece, quello su cui è stato pensato il quarto video, rappresentante una donna filippina che dorme, immagine che si pone come ribaltamento della sovrastruttura occidentale che la vedrebbe affaccendata e in continuo movimento. In antitesi con i primi, quest’ultimo sembra infatti rovesciare i meccanismi di sopraffazione, l’esaltazione della velocità, la divinizzazione del modello funzionalistico che veicolava le precedenti inquadrature per porsi come rivendicazione del riposo come diritto e dimensione necessaria aella condizione umana.

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