Ali e Rita. «Concubinaggio: scomunica sia», fu la sentenza di Pio XII

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Un intralcio doloroso, anch’esso legato in qualche modo alla sfera sentimentale, capitò pure sulla strada di Ali, rischiando di far slittare ulteriormente le nozze. Occorre, a questo proposito, ricordare le passioni sportive del principe e il suo attaccamento a questo mondo: sci e cavalli sopra tutto il resto, discipline d’élite e aristocratiche che lo vedevano spesso protagonista, con l’amico Gianni Agnelli, a Cortina o agli ippodromi inglesi (vinse oltre cento concorsi ippici). Inoltre il principe era nato a Torino nel 1911 da madre italiana (Cleope Magliano, una ballerina) e, proprio in quella città, nell’immediato dopoguerra, c’era una squadra di calcio amata da tutta Italia (anche quella meno sportiva), e stimata da tutto il mondo; una formazione che soltanto i tifosi dell’ultimo ventennio (forse troppo distanti dall’autentico valore che il calcio espresse in quel periodo) probabilmente ne ignorano l’assoluta invincibilità morale più che agonistica. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II erano gli undici moschettieri al servizio di un’altra Italia pronta a rinascere, unita (quella sì, davvero unita!), pronta a lasciarsi alle spalle, grazie alle loro imprese, i dolori e i sacrifici della guerra; di un altro calcio giocato (non solo con i piedi), sentito (non soltanto alla radio), un calcio educato ed eroico quello del quale fu simbolo il Grande Torino di Valentino Mazzola. Vinsero cinque scudetti consecutivi dal 1942 (quindi lo stop imposto dal conflitto mondiale) al 1949. Fu la squadra che riportò l’entusiasmo patriottico dopo anni di stenti, la squadra che se dalla guerra non fosse stata sospesa avrebbe vinto il campionato per l’intero decennio. Non si poteva non sentirsi galvanizzati da quel Grande Torino. Non si poteva non amare l’unica formazione della storia che per dieci undicesimi rappresentò la nazionale italiana. Da Venezia a Genova, da Milano a Palermo tutti ascoltavano alla radio le imprese eroiche dei loro idoli. E quando, all’alba del 4 maggio 1949, di ritorno da una trasferta a Lisbona, l’aereo che li riportava in patria si schiantò sulla collina di Superga, fu una tragedia infinita. Tutta Torino, tutto il mondo sportivo, tutta Europa ne fu scossa. Indro Montanelli scrisse il 6 maggio, in una memorabile terza pagina, di aver visto singhiozzare un’infinità di ragazzi per le vie di Milano, di averli visti a gruppi leggere il giornale stringendo tra le mani le figurine stropicciate dei loro moschettieri in casacca granata.

         La sciagura di Superga richiamò l’attenzione di tutti: cisalpini e transalpini. Forse soltanto Margarita Carmen, cresciuta tra l’arte coreutica a Broadway e quella del grande schermo a Hollywood, restò interdetta per l’imponente eco che la tragedia suscitò. Probabilmente un pensiero – dalle contorte radici che affondano nelle credenze popolari andaluse – cominciò a balenare nella sua mente: questo matrimonio non s’ha da fare! Ma il frutto di quella passione, che prese poi il nome di Yasmine, si fece sentire proprio in quell’istante e ciecamente lo discacciò. Potrebbe essere stato questo il motivo per cui all’improvviso, tra lo scetticismo dei cronisti ancora scioccati dalla tragedia sportiva, si venne a sapere che appena pochi giorni dopo (il 27 maggio) «colei che è stata designata come la più bella donna del mondo – raccontò Orio Vergani, inviato davvero speciale del Corriere della Sera – la Venere del Novecento, la mascotte dei soldati americani nella guerra mondiale, la Gilda che ha rappresentato, in un certo modo, una confortante bandiera di bellezza nelle ore di riposo degli eserciti affaticati ed insanguinati, dirà di sì al sindaco di Vallauris» che le chiederà ufficialmente «Voulez-vous, mademoiselle, Margarita Carmen Cansino, unirvi in matrimonio al qui presente principe Ali Khan?». Evviva!

Intanto, già il giorno precedente alla cerimonia, il nostro cronista d’eccezione raggiunse la Costa e si spinse alle soglie dell’inviolabile e superba residenza dell’Aga Khan, che decine di inservienti silenziosissimi stavano addobbando a festa: valanghe di fiori ovunque negli interni e nei giardini, nelle fontane e tra le statue; lungo i viali piante tropicali seguivano il declino verso il mare, e laggiù una darsena e il porticciolo dov’erano ancorati i grandi motoscafi di Ali. «Io ho pensato – onore alla penna di Orio Vergani – che la miglior tattica fosse quella di considerare lo Chateau de l’Horizon come casa mia e di entrarvi pacificamente, leggendo il giornale e fermandomi, anzi, ogni tre o quattro passi, come se leggessi qualche notizia estremamente interessante…» Leggere solitariamente un quotidiano e far finta di porgere la propria attenzione alla carta stampata piuttosto che alle magnificenze esibite dall’imam per le nozze di suo figlio – diciamolo – potrebbe pur essere una delicatezza nei confronti di quei padroni di casa soliti nel manipolare rubini e smeraldi come noi trattiamo i ceci. Infatti, continua Vergani: «I doni arrivano a Rita e ad Ali con un fasto e un’abbondanza di cui essi non hanno certamente bisogno, ma che sono, in ogni modo, una cara testimonianza di amicizia… un sacchetto di tela della misura d’un normale sacchetto di caramelle, pieno di pietre preziose, sciolte, messe lì dentro con la bonarietà con cui, per uno scherzo, si metterebbero delle manciate di grossa ghiaia; e Ali ha deposto con un velo di amabile noncuranza il sacchetto su un mobile, dove è rimasto abbandonato per quasi tutto il giorno».

Addentrandosi poi in un ambiente più elitario, il nostro cronista puntò verso uno scalone che affacciava sul mare: lì trovò «… il principe Ali. Era vestito con una tuta di tela azzurra, come un meccanico di corse automobilistiche: aveva un piccolo fazzoletto di seta a disegni di cachemire al collo, pantofole di tela marron legate con stringhe bianche… Parlava amabilmente con un ufficiale inglese venuto da Londra a salutarlo, un vecchio compagno d’arme… parlavano di un quadro rappresentante un concorso ippico. Egli diceva che non aveva ancora deciso se acquistarlo o no». Poi all’improvviso, dall’alto di una terrazza sospesa, una voce di donna richiamò un cane e l’emozione del cronista ebbe un sussulto: «Avrei potuta vederla facendo forse appena qualche passo più avanti ma evidentemente era scritto che la parte migliore fosse riservata all’indomani».

Eccoci all’indomani. Perdonino gli amanti delle fiabe se il cronista Vergani ha attinto da queste per la descrizione che segue. «Trionfi simili si vedono solo nelle riviste di grande spettacolo… eppure non era quella che vedevamo una finzione scenica; era una parte viva della vita. Vero era il cielo azzurro, veri i palmeti, veri i cortei d’automobili, veri erano i maragià, vere le dame indiane vestite come nelle antiche miniature, veri i misteriosi personaggi orientali vestiti con neri e bianchi mantelli come gli sceicchi dei film di Rodolfo Valentino, vere le bellissime europee arrivate, con carni giovani o nascostamente antiche, profumate di squisite essenze, dalle più belle ville del mondo; veri i pittori celebri scesi dai loro studi di Parigi, vere le principesse e i principi, verissime le infinite canestre d’orchidee, verissimi i grandi fasci di fiori galleggianti sul mare, vero lo sposo, bruno e disinvolto che parla cinque lingue e persino il piemontese; vera la sposa che, senza essere forse proprio la più bella donna del mondo, è certamente un perfettissimo campionario di quegli attributi di grazia… Ali è arrivato due minuti prima delle 11 sulla sua macchina americana, targata GB 3434 TT8X. Guidava lui, vestito con giacchetta nera e garofano all’occhiello… E adesso dovrei dire come è la bellezza di Rita Hayworth, vista, come l’abbiamo vista al matrimonio e poi al ricevimento, a pochi centimetri di distanza e non sullo schermo del cinematografo… Rita sa, e non lo nasconde, di essere coronata, prima che dalla corona dei Khan, da quella di una straordinaria bellezza… Quella di Rita è la bellezza di una magnifica domenica di primavera. Se dovessimo paragonarla a un fiore, più che alla gardenia o alla rosa o all’orchidea, la paragoneremmo a una bellissima ortensia… Oggi era la giornata del sorriso e Rita doveva sorridere infaticabilmente a tutti… nel mio diario segreto scriverò che Rita Hayworth ha dovuto sorridere anche al sottoscritto…».

Il giorno seguente furono celebrate, alla chetichella (e non solo per la stanchezza dei precedenti bagordi), le nozze musulmane, ma la notizia trapelò e raggiunse subito il Vaticano: e se l’imam fu ben lieto di avere come nuora la donna più bella del mondo, il papa non gradì che la donna più bella della cristianità esibisse un planetario cattivo esempio. Anche Pio XII, nonostante non abbia mai condannato ufficialmente le atrocità ordinate da Hitler, nei confronti della Hayworth si dimostrò più che intransigente: vada per la bomba atomica in bikini, vada per il guanto nero sfilato con sensualità, vada per gli ancheggiamenti lascivi dedicati all’Amado mio, ma sposa a un musulmano no, mai! Dichiarò «non esistente» quel legame, in quanto la diva, battezzata, non aveva celebrato le nozze secondo il rito cattolico. «I due per la Chiesa – è scritto in una celebre nota della Santa Sede – vivono in stato di pubblico concubinaggio. Il fatto che essa si sia sposata secondo il rito di quella religione la fa incorrere fin d’ora nella scomunica». E scomunica fu.

Le conseguenze della iattura (pardon, della bolla papale), che solo un napoletano munito di cornetto contro il malocchio avrebbe potuto immaginare, furono funeste. L’Aga Khan, osservando il comportamento senza freni del figlio Ali, giocatore d’azzardo oltre che amante della vita lussuosa, lo spedì in Africa, riducendogli fortemente l’agio economico. Rita lo seguì per qualche tempo, ma la quotidianità di Zanzibar non era di suo gradimento e partì, lasciandolo solo. Quando si rividero lei capì che lui l’aveva tradita e inevitabilmente il rapporto si guastò.

Il matrimonio, che terminò nel 1953, creò a Rita una sorta di ostracismo in patria; Elsa Maxwell, offesa per non essere stata invitata alla cerimonia, le tolse il saluto e con essa la stampa tutta si raffreddò nei suoi confronti; la Federazione delle donne americane decise di boicottare i suoi film; insomma, cominciò il vero declino professionale che naturalmente non vogliamo raccontare per ricordare Rita Hayworth al meglio del suo splendore. Come compete soltanto a una stella, e non solo del cinema.

E mentre Ali veniva a sapere di aver perso il titolo di quarto Aga Khan (passato direttamente a suo figlio), un quarto marito aveva già bussato alla porta di Rita.