A centoventi anni dalla nascita, l’immagine dell’attore romano è ancora viva nella memoria del suo pubblico
Aldo Fabrizi fu romano da sette generazioni, tanto che della sua romanità il critico teatrale Silvio D’Amico scrisse «Due luoghi comuni corrono sul conto di Roma: quello di Roma magniloquente e quello di Roma cinica, e sono falsi tutti e due, Fabrizi è la voce autentica di Roma bonaria e generosa».

Aldo Fabrizi nei panni di Don Pietro nel film “Roma città aperta” (Rossellini, 1945)
Le atmosfere popolari di un tempo, infatti, scorrevano come un flusso di sangue scuro e folcloristico nell’animo del celebre artista. La sua umanità era plasmata dalla vita di quelle strade invase dai profumi dei mercati, dalle ceste di frutta e verdura, e dai sacchi di juta imbottiti di caffè e spezie. Tra le fila di quelle comunità suggestive – fatte di persone giudiziose e sciocche, fameliche e sfamate – emergevano la gente umile: operai, tranvieri e vetturini. Questi furono i modelli di riferimento che ispirarono Fabrizi nel modellare il suo ingegno e la sua furbizia artistica e poetica.
Al giorno d’oggi, a distanza di centoventi anni dalla sua nascita, è ancora vivo negli occhi di quel pubblico che lo ha amato, il ricordo di quell’immagine bonacciona e indulgente che caratterizzava i suoi personaggi, figure umane semplici e generose. Se il nome di Fabrizi nel cinema è indissolubilmente legato al personaggio di Don Pietro in Roma città aperta (Rossellini, 1945), nel teatro il suo ruolo d’elezione è stato Mastro Titta nella commedia musicale Rugantino (Garinei e Giovannini, 1962), figura emblematica a cui l’attore sapientemente donò i contorni di una maschera drammaticamente comica. Il suo volto era morbido, soffice, tondo e si adattava perfettamente ai molteplici registri interpretativi; traboccante di una romanità verace, riempiva il palcoscenico (e lo schermo) con una forza che ha avuto pochi eguali nella storia dello spettacolo italiano. Inoltre, va ricordato, che la carriera teatrale dell’attore romano iniziò quando, poco più che ventiseienne, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio artistico sulle scalcagnate tavole dei cine-teatri, prendendo parte a numeri di avanspettacolo. Negli anni Trenta lunghi ed estenuanti viaggi lo portarono in giro per la penisola.
Con i suoi comici monologhi, Fabrizi, sera dopo sera, si costruì un nome che ben presto circolò anche nell’ambiente cinematografico. La battuta tipica del suo repertorio era Ciavete fatto caso, una frase che caratterizzava molto bene la sua schietta mentalità di attore comico e con la quale illustrava, tra l’altro, tutte le situazioni più imbarazzanti, divertenti o banali che capitavano ogni giorno; un escamotage utilizzato da Fabrizi per raccontare come vivevano i poveracci e i borghesucci degli anni Trenta e Quaranta. Insomma, il suo intento era quello di fornire al pubblico il ritratto di un’epoca o, meglio ancora, la sintesi dei pregi schietti e dei grossolani vizi della società italiana. Infatti, lo spettatore, alla visione dei suoi spettacoli, si sentiva parte di un “tutto”, grazie alla scelta dell’attore romano di impersonare personaggi popolari, ingenui o maliziosi, portatori di una propria morale (ricavata dalle esperienze quotidiane) che, alla conclusione di ogni racconto, diventava poi collettiva. Ma l’amore per il palcoscenico l’artista lo espresse pienamente negli anni Quaranta quando formò la sua prima compagnia di prosa “Teatro Nostro” con la quale raccontò le miserie e i dolori del dopoguerra. Difatti, negli anni della guerra e nel periodo post-bellico, Fabrizi fu “un’antenna ricevente e trasmittente di cronaca cittadina”, capace di captare gli umori e le locuzioni della sua epoca.
Però il suo aspetto pittoresco non era una cristallizzazione regionalistica, una ridondanza di un dialetto e di certe forme locali. Nonostante le sue espressioni fossero state percepite dal pubblico come “caserecce”, la sua impronta non lo era affatto. Le origini, il carattere, le qualità espressive, le abilità pregresse indirizzarono Aldo Fabrizi verso la scoperta e le focalizzazioni di quei sentimenti collettivi, che davano tono, calore, scossa alla vita degli uomini semplici, anche uomini di un’altra lingua e cultura. «Il mondo di Fabrizi», come scrisse il giornalista Renato Buzzonetti, «è popolato di uomini e di donne, mossi dai più sapidi umori del nostro popolo: gente minuta, dagli alberi genealogici scarsamente blu, che affronta giorno per giorno una vita dura ma pulita, che sa godere gli attimi di felicità che la vita elargisce; che reagisce all’urto del dolore e della povertà con immediata spontaneità. Un sorriso bonario, divenuto quasi inevitabile, illumina il volto di Fabrizi attore e regista, sempre pronto a commentare con popolaresca e genuina simpatia gli aspetti più divertenti o curiosi degli uomini e delle cose».

Mastro Titta, “er boja de Roma” (Rugantino di Garinei e Giovannini, 1962)
Aldo Fabrizi si rivelò dunque un attore completo, la cui maschera con uguale efficienza assunse i toni più disparati, e fu, forse soprattutto, un narratore vigile delle vicende umane, il cui punto di partenza erano le storie più semplici e comuni esperienze.




